Juan Carlos Onetti nel 1939 scrive Il pozzo, il suo breve romanzo d’esordio buttato giù – leggenda vuole – in un fine settimana in cui ha smesso di fumare. Nella traduzione di Ilide Carmignani, questo concentrato di poetica onettiana ai suoi albori arriva in Italia, sempre a opera della casa editrice romana SUR, in una seconda edizione vestita di nero e accompagnata dall’appassionata postfazione di Valeria Parrella.
Non ho le sigarette, non ho le sigarette. Queste che sto scrivendo sono le mie memorie. Un uomo abbandonato, stordito da un maledetto caldo che nel pomeriggio avvolge la sua stanza malridotta, emerge da un incipit cadenzato da lenti passi sulle piastrelle che preannuncia immediatamente lo stato delle cose, così come sono state concepite in questa opera: qui nulla è più reale delle visioni e dei ricordi, mentre il presente è poco consistente, avvolto in un alone di indifferenza e repulsione.
Il protagonista, di cui più tardi conosceremo il nome, di punto in bianco, nel bel mezzo della calura, del disordine e dell’insofferenza, prende coscienza dell’istante, delle finestre, degli odori, del mento sbarbato che punge sulla spalla e si ricorda che l’indomani compie quarant’anni e che, quindi, sarebbe bene incominciare a scrivere di sé. Allora fa qualche avvertenza al lettore, mettendo in chiaro che la scelta aneddotica sarà casuale e che, se racconta dei suoi sogni piuttosto che di fatti realmente accaduti, non è perché non ha altro da dire, ma è perché mi va così, semplicemente.
Ma oggi voglio qualcosa di diverso. Qualcosa di meglio della storia di quel che mi è successo. Mi piacerebbe scrivere la storia di un’anima, di lei sola, senza gli avvenimenti di cui, volente o nolente, ha dovuto mescolarsi. Altrimenti sogni. L’intento è quello di spogliare le memorie dai fatti, così che un’anima possa essere raccontata nella leggerezza che prescinde da ogni concreto profilo – di persona, di luogo, di cosa – come succede nei sogni, quando un corpo di donna si sistema sul letto di foglie, in un’attesa senza affanno e senza peso.
Tentando di dirigere una stesura equilibrata tra un avvenimento e un sogno, il narratore de Il pozzo racconta la maniera in cui nella sua mente e nelle sue notti – ma non solo – si incontrano due mondi, quello reale e quello onirico, fatto di visioni semplici che sono rievocate spontaneamente per compensare a un reale che ha perso la purezza. Lui le chiama avventure, ognuna delle quali porta un suo titolo particolare, quelle fantasticherie che arrivano, lo appagano e se ne vanno, che nel testo si alternano a uno specifico episodio della vita e che hanno sempre un prologo, quasi mai lo stesso.
Mi piace pensare che non a caso l’uomo scrive il suo nome quando nel memoriale è il momento di Cecilia. In realtà, non mi aspettavo di conoscerne il nome, pensavo non avesse interesse a specificarlo, così come è disinteressato a tutte le cose del mondo, ma il fatto che l’abbia segnato proprio di fianco a quello di Cecilia Huerta Linacero è stato una conferma dell’immediata impressione che Eladio Linacero mi ha suscitato dalle prime righe, dalle piastrelle e tutto il resto: di chi, in un tempo andato, si è aperto all’amore e adesso è stanco e inselvatichito.
L’amore è una cosa troppo meravigliosa perché uno possa stare a preoccuparsi del destino di due persone che non hanno fatto altro che averlo, inspiegabilmente. Anche qui, l’intenzione è quella di spogliare il sentimento d’amore dalle persone che lo provano, che lo hanno provato, dalla loro carne; quelle persone che, meritevoli o no – il più delle volte no –, ne hanno fatto meravigliosamente esperienza. Persone come loro:
Come un figlio, l’amore era uscito da noi. Lo nutrivamo, ma lui aveva una sua vita separata. Era meglio di lei, molto meglio di me. Come fai a paragonarti a quel sentimento, a quell’atmosfera che quando uscivo mi costringeva a tornare mezz’ora dopo, disperato, per essere sicuro che lei non fosse morta in mia assenza? E Cecilia, che sa distinguere i diversi tagli di carne di manzo e tenere testa al macellaio se vuole imbrogliarla, c’entra qualcosa con quello che la faceva viaggiare in treno con gli occhiali scuri, tutti i giorni, poco prima di sposarci, perché nessuno doveva vedere gli occhi che mi avevano visto nudo?
La disillusa ma forte tenerezza che muove i ricordi riguardanti Cecilia si intreccia al racconto della storia di Ester, come se Eladio Linacero abbia bisogno di farsi coraggio per alcune rievocazioni, come se l’una c’entri qualcosa con l’altra per il fatto di essere parte di quelle memorie, come succede anche con Cordes e Lázaro, il poeta e il disprezzabile coinquilino smarrito. Le figure di Ester e Cordes appaiono quasi oniriche perché a loro, e solo a loro, il protagonista confessa, un po’ per caso, un po’ per riconoscenza, un po’ per noia, il segreto dell’esistenza delle sue avventure.
Ma nemmeno un poeta, né una prostituta, riescono a comprendere cosa Linacero sta confidando loro, su quelle intime visioni che arrivano da lui quando vogliono, senza violenza, rinascendo a ogni visita, fino a condurlo in una baita, in mezzo al gelo della fine del mondo. Allora scrive, nonostante il caldo, fuma e scrive, riposa gli occhi, ma continua con un po’ di imbarazzo lo svelamento al lettore delle cose fantasticate, di quel modo che ha di tenere con sé i sentimenti, ben avvolti in forme conosciute, in volti incrociati e mai più rivisti nel mondo delle cose reali.
L’equilibrio è la chiave della narrazione anche perché alla fantasticheria e alla delicatezza di alcuni passaggi si bilancia un linguaggio crudo e aggressivo. Eladio è un uomo schivo, solitario, provocatorio, che vediamo attraversare momenti di luce estatica quando, esaltato e felice, rivive quel pazzo tentativo di ricreare un’emozione grande del passato o quell’altrettanto pazzo impulso di mettere a nudo la sua anima, stimolato da una grandiosa poesia. Che ci sia riuscito o meno non gli importa, non gli importa di nessuno – lo ripete – ma, forse, nonostante tutto, non ha ancora perso la speranza di una realtà all’altezza dei suoi sogni, di innamorarsi ancora.
Per Valeria Parrella – come scrive nella postfazione all’opera – il prologo è sempre l’amore: È così che nasce la vita, in America Latina, dentro un labirinto, oppure ovunque: dalla memoria e da chi sa raccontarla. Dal sogno e da chi se lo ricorda. Certo – dice Onetti alle prese con il farsi del suo romanzo breve – ci vuole qualcosa che rappresenti un prologo, e il prologo è sempre l’amore.
Per Juan José Saer, invece, l’epilogo sta nella sconfitta. Nel testo di introduzione a Il pozzo, lo scrittore argentino commenta la coerenza e la versatilità dell’opera dell’uruguaiano Onetti e il suo modo innovativo e complesso di costruire un punto di vista mai uguale a un altro; che si tratti di romanzi (lunghi o brevi) o di racconti, la sconfitta è ciò che sempre raccontano o presuppongono i narratori di Onetti.
Si tratta di un’agonia che Juan Carlos Onetti ci fa vedere da angolazioni mai fisse, speciali, e che, in questo caso specifico, si racchiude in una forma bellissima e piena di grazia, quella del romanzo breve, che lascia liberi proprio tutti, liberi di sentire – più che di capire – senza sforzo, senza ragionamento, naturalmente, come in un sogno ritrovato.
Così, riemerso in una stanza sudicia alla soglia dei quarant’anni e sprovvisto di sigarette, Eladio Linacero ritorna coscientemente in quel luogo solo qualche ora più tardi, quando perfino le fantasie notturne possono essere amare e la disfatta arriva dolcemente, lirica, così come era stata preannunciata. Arriva perfino per chi conosce davvero la notte ma non è mai riuscito a catturarla, solo a farsi catturare.