Le parole, dicono, hanno un peso. E, così, nella prima pagina di ieri de Il Giornale – che accoglie con favore la modifica all’articolo 434 del Codice Penale – ci sono tutte: rave, sballati, feste selvagge. Parole che, tra perdizione e dissolutezza, violenza e droga, sintetizzano una legge che non c’è o, meglio, la legge che vorrebbero farci credere che ci sia.
La chiamano norma anti-rave, ma in realtà è molto di più. Non serve essere dei fini osservatori per comprendere le finalità (e l’urgenza) del primo decreto varato dal governo di Giorgia Meloni, basta leggerne il testo. E questo, nello specifico, recita così:
L’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica […] commessa da un numero di persone superiore a cinquanta […] è punita con la pena della reclusione da tre a sei anni e con la multa da euro 1000 a 10000.
Invasione. Incolumità. Reclusione (nel Paese del sovraffollamento). Se le parole hanno un peso, vien da sé che la vaghezza della norma rischia di tramutarsi, sin da subito, in un pretesto per criminalizzare le più svariate forme di raduno, quindi di dissenso. Una misura che taluni definiscono liberticida e pericolosa e che, formulata in questo modo, apre ad ampia discrezionalità dinanzi a occasioni che nemmeno il decreto definisce rave, la scusante usata dal governo per punire lo stare insieme.
È di questo, infatti, che si tratta, della punibilità dell’incontrarsi, del ritrovarsi in gruppi numerosi, di occupazioni studentesche, di picchetti, di manifestazioni, di adunate in piazza non autorizzate. A lanciare l’allarme, tra i primi, è Amnesty International che denuncia l’arbitrarietà di un decreto che rischia di avere un’applicazione ampia a scapito del diritto di protesta pacifica, che va tutelato e non stroncato. L’intento malcelato, tuttavia, è proprio questo. E non sorprende, non più di tanto.
È da anni, ormai, che le politiche securitarie, in Italia, si muovono in questa direzione. Basti pensare al decreto Minniti-Orlando o ai decreti sicurezza di Matteo Salvini, per restare in tempi recenti. Il primo che introduceva il concetto di daspo urbano – confermato, anzi inasprito, anche dal decreto immigrazione del Conte bis – per perseguitare i poveri, attraverso l’allontanamento da alcune zone delle città di persone che mettevano a rischio la salute dei cittadini o il decoro urbano; i secondi che reintroducevano il blocco stradale, vale a dire un procedimento di natura penale per qualunque assembramento di persone non autorizzato. Un modo, insomma, per scoraggiare i manifestanti.
Non è un caso che il nuovo Ministro dell’Interno sia un fidato di Matteo Salvini, uno che quei decreti li ha scritti insieme a lui. Non è un caso che, a pochi giorni dall’occupazione de La Sapienza dopo le solite manganellate ai danni di studenti che esprimevano il loro dissenso in modo pacifico – anche se per Piantedosi «le forze dell’ordine hanno fatto in modo che non venisse fermata una iniziativa che si stava svolgendo regolarmente» –, sia arrivato questo provvedimento. Non è un caso che, al cospetto di un Paese sul lastrico, sempre più affamato, pessimista e timoroso di un inverno che non intende arrivare – ma solo perché il cambiamento climatico, al momento, vince il bisogno di termosifoni accesi – si sia optato per un’esibizione muscolare del potere governativo. È, d’altronde, il primo modo per imporsi, per fare la voce grossa, per chiarire chi è che comanda.
E chi è che comanda? La domanda, dinanzi ai fatti di Predappio, sorge spontanea. Come ogni anno, infatti, anche stavolta, in occasione del centesimo anniversario della Marcia su Roma, le camicie nere si sono date appuntamento nel paese romagnolo dove è nato ed è sepolto Benito Mussolini, uno che a Palazzo Chigi conoscono bene.
Circa duemila nostalgici si sono ritrovati in corteo e poi dinanzi al cimitero per il camerata per eccellenza: saluti romani, simboli fascisti, Faccetta nera e molto altro. Un rave a tutti gli effetti – stando alle nuove definizioni – che, tuttavia, dal Viminale non intendono punire: «Una manifestazione che si tiene da tanti anni» dice Matteo Piantedosi. Una manifestazione anticostituzionale, non aggiunge.
Il raduno, infatti, configura apologia del fascismo, un reato definito già nel 1952 con la Legge Scelba per attuare la dodicesima disposizione finale della Costituzione. Con questa legge si proibisce, in primo luogo, la ricostruzione del partito fascista, attuata da persone che perseguono finalità antidemocratiche proprie del periodo di Mussolini, esaltando, minacciando o usando la violenza qual metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la Democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista. In secondo luogo, si definisce reato perseguibile anche l’esaltazione di esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche.
La norma, dunque, non si limita a impedire la ricostruzione del partito, ma anche la sua apologia, la celebrazione o la semplice difesa dei suoi valori. Ogni anno, invece, assistiamo alla sfilata di camicie nere, a commemorazioni e intimidazioni proprie di quel tempo, in barba anche alla Legge Mancino, che dal 1993 stabilisce aggravanti per reati commessi con finalità razziste e impedisce di esibire bandiere o simboli di organizzazioni violente. E cos’è, se non questo, quello che si organizza a Predappio il 30 ottobre? E cos’è, se non questo, un raduno pericoloso per l’ordine e l’incolumità pubblici?
Ancora una volta, tipico di questo Paese, siamo dinanzi a una doppia morale. Quella che nega il passato ma censura il futuro. Quella che accoglie il fascismo ma impedisce qualsiasi altra forma di pensiero. La verità è che il rave di Modena è stato l’occasione perfetta, per il governo, di mettere in campo i primi strumenti necessari all’agenda Draghi, oggi FdI. Strumenti per forza repressivi dinanzi all’incapacità di rispondere alle esigenze del Paese, dalle bollette che aumentano alle università che crollano, alla fame di troppi. Dinanzi alla rabbia che ribolle, non così in profondità e ancora per poco, che presto cercherà sfogo nelle strade, sotto i palazzi che contano, ai danni di chi non ascolta nessuna voce che non sia la propria. La voce di chi – di qui a breve – non avrà nemmeno quelli che a Napoli chiamiamo gli occhi per piangere.
Altro che sballati, rave e feste selvagge. Altro che regole che si torna a far rispettare, come dice Salvini, uno che quando è stato al Viminale ha assistito inerme a ben cinquanta di questi criminosi eventi. Il decreto stando alle parole, è populismo penale. Stando ai fatti, invece, è intimidazione, è dittatura, è inasprimento delle tensioni sociali che non tarderanno a manifestarsi. E chissà perché, scrivendo questa frase, me ne è tornata in mente un’altra: «La libertà senza ordine e senza disciplina significa dissoluzione e catastrofe». La diceva Mussolini, ma potrebbe essere una massima di Meloni o Salvini. Vietato stare insieme, dunque. Che non si inciti al pensiero.