Migranti, porti, confini. Matteo Salvini è Vicepremier. Matteo Salvini è tornato a propagandare. Guardo il calendario, strofino gli occhi, ricontrollo la data. Ho come la sensazione che il nastro si sia riavvolto. Potrebbe essere l’estate del 2018, invece è l’ottobre di quattro anni, tre governi e una pandemia dopo, anche se le alte temperature sembrano suggerire tutt’altro. Non lui, però, lui è rimasto lo stesso. Ha soltanto cambiato ufficio. Dal Viminale a Villa Patrizi, dal Ministero dell’Interno al Ministero delle Infrastrutture. Anzi, per dirla con le sue parole, al Ministero di terra e di mare. Un po’ come i menù che gli piace proporci dalle più svariate località della penisola.
Lunedì è il suo primo giorno di lavoro. Il governo ha giurato appena quarantotto ore prima, eppure fortuna vuole che ci sia già l’occasione per fare la voce grossa, per ricordare alla collega Meloni che va bene la Presidenza del Consiglio, passi persino il fortino di voti ceduto – o rubato –, ma la delega ai porti e alla guardia costiera no, quella non si tocca, di certo non per affidarla al nuovo dicastero del Sud e del Mare di Nello Musumeci. Questa è materia di sua competenza.
D’altro canto, al largo della Libia ci sono due navi ONG, la norvegese Ocean Viking e la tedesca SOS Humanity One, le prime che con tutta probabilità busseranno alle porte d’Europa per chiedere un porto sicuro. A bordo accolgono più di un centinaio di persone salvate in acque internazionali. Con gli italiani che non possono pagare le bollette, la sinistra ormai in soffitta e i poveri che hanno sempre più fame, basta solo impiattare, la specialità della casa è servita.
Non è una combinazione fortuita che, come primo atto da Ministro, Salvini scelga di ricevere l’ammiraglio Nicola Carlone, comandante generale della guardia costiera, un lungo e proficuo incontro per fare il punto della situazione anche in tema migranti. Riparte la battaglia all’immigrazione illegale, festeggia su Twitter l’account della Lega. Se a farlo sarà anche quello di Fratelli d’Italia è ancora presto per dirlo.
A sciogliere la riserva sul Ministero di competenza in materia di porti sarà, infatti, il Presidente Giorgia Meloni, la quale – pare – ha tenuto Salvini lontano dal Viminale proprio per la folle gestione del dicastero che ha portato il leader del Carroccio a processo per sequestro di persona. Quello che, però, lo stesso Salvini non dice è che, nello specifico del suo nuovo impiego, la competenza sui porti riguarderà soltanto la gestione delle banchine e non la possibilità di negare l’attracco a una nave. Quella, in cambio, spetta al Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi.
A molti il nome non dirà troppo, eppure – a differenza di quanto taluni vogliano far credere – il numero uno del Viminale non è nuovo da quelle parti e nemmeno in ambito migratorio. «I decreti sicurezza? Li abbiamo scritti insieme» così Matteo Salvini presentava Piantedosi, capo di gabinetto del leader della Lega ai tempi del Papeete e ora sostituto di Luciana Lamorgese, su indicazione della quale è stato prefetto di Roma. E così, fresco di nomina, il Ministro più politico che tecnico – al contrario di come viene indicato – non ha esitato a ringraziare per la notevole promozione.
È sua, infatti, la direttiva indirizzata ai vertici delle forze di polizia e al comandante generale della guardia costiera, in riferimento alle due imbarcazioni impegnate nel soccorso in mare, con la quale spiega che gli interventi della Ocean Viking e della SOS Humanity One sono avvenuti in piena autonomia e in modo sistematico, senza ricevere indicazioni dall’Autorità statale responsabile di quell’area SAR, Libia e Malta, che è stata informata solo a operazioni avvenute.
Le condotte delle due navi, inoltre, vengono definite non in linea con lo spirito delle norme europee e italiane in materia di sicurezza e controllo delle frontiere e di contrasto all’immigrazione illegale. Così, viene citato anche l’articolo 19 della Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sul diritto del mare a cui il Ministro si appella per dichiarare che il passaggio delle due imbarcazioni può essere considerato pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero, aprendo alla possibilità di divieto di ingresso nelle acque territoriali. Inutile sottolineare l’esultanza di Matteo Salvini: «Come promesso, questo governo intende far rispettare regole e confini».
«Non è pensabile che le navi di tutto il mondo agiscano in tutto il mondo e poi arrivino unicamente in Italia. Onori e oneri vanno condivisi. […] Se c’è una nave norvegese si fa un colpo di telefono in Norvegia, se c’è una nave tedesca si fa un colpo di telefono a Berlino» insiste il Vicepremier per mettere pressione su un governo che rischia di debuttare in campo internazionale con l’ennesimo tiremmolla tra ONG e Stato italiano. Eppure, Salvini ha esperienza a sufficienza per sapere che non è così che funziona, che non bastano i colori di una bandiera a indirizzare le navi in servizio nel Mediterraneo. Serve il porto sicuro. Non il secondo, non il terzo, ma il primo, il più prossimo, spesso l’Italia, da cui poi vanno avviate le pratiche di smistamento – parola terribile in relazione a vite umane – dei migranti da accogliere su suolo europeo e, invece, il più delle volte bloccati negli hotspot.
A onor del vero, il documento del Viminale nasce da un’altra iniziativa, quella del Vicepremier forzista Antonio Tajani. È lui, infatti, che ha trasmesso al Ministero dell’Interno due note verbali, una indirizzata all’Ambasciata del Regno di Norvegia e l’altra destinata all’Ambasciata delle Repubblica Federale di Germania, al fine di allertare l’intero sistema in merito alle intenzioni del nuovo esecutivo. Ma è proprio seguendo Salvini sul suo terreno di caccia che quello che è a tutti gli effetti il primo atto politico di Piantedosi finisce per rivelarsi più un’operazione di facciata che di concreto muso duro.
Il blocco all’ingresso vale, infatti, per le due ONG, di certo non per le imbarcazioni di fortuna che in queste settimane, complici anche le condizioni meteo favorevoli, stanno muovendosi nel Mediterraneo. D’altro canto, in mare vige l’obbligo del soccorso in caso di emergenza, principio che non può – mai – essere messo in discussione. Altro che pregiudizievole per la pace. Il contrasto alle ONG si conferma, dunque, ancora il cavallo di battaglia di questa politica, lo slogan perfetto, la più luminosa luce della ribalta.
Eppure, c’è stato un tempo – oggi lontano, lontanissimo – in cui le organizzazioni non governative erano considerate il simbolo della società civile europea pronta ad accogliere e a non abdicare al proprio ruolo dopo lo scoppio del conflitto in Siria e il fallimento della primavera araba. Era il 2015 e chi salvava vite, nell’immaginario collettivo, era un angelo del mare. Poi si è attivata la Bestia penta-leghista. Il discorso pubblico è stato deviato: gli angeli sono diventati scafisti, taxi del mare. La politica ha iniziato a imbastirci su la propria propaganda, le campagne elettorali sono mutate, i toni accesi e mai più spenti. La gente ha cominciato a sospettare, poi a odiare senza sosta. La solidarietà si è fatta reato. Da allora, il processo di criminalizzazione non ha saputo più fermarsi, i sovranisti hanno sfigurato il volto dell’Europa come del mondo intero.
Per questo quando Salvini parla di tornare a difendere i confini, dopo la lunga parentesi Lamorgese, sappiamo che è, ancora, mera propaganda. Basti pensare che, a discapito degli hashtag incandescenti, negli anni in cui il leghista è stato fuori dai giochi, non è cambiato molto rispetto a quando insieme a Giuseppe Conte vantava i Decreti Sicurezza. Persino questi, leggi assurde e senza scrupoli – seppur con un nome appena diverso, Decreto Immigrazione – hanno continuato a vivere e regolare le vite di tanti che, disperati, sono giunti in Italia dopo la traversata della speranza. Per non parlare del Memorandum con il quale, dal 2017 – al Viminale c’era Marco Minniti –, Roma dirotta milioni di euro nelle casse di Tripoli affinché quest’ultima contenga l’emorragia umana che si riversa nelle acque mediterranee. Ed è ancora con Luciana Lamorgese che – e qui Salvini non ha nulla da rivendicare – per la prima volta nella storia del Paese un decreto interministeriale ha dichiarato che l’approdo sulle nostre coste non potesse definirsi sicuro. Il motivo, è presto detto, si chiamava Covid-19.
La definizione di place of safety, luogo sicuro, è stata spesso al centro del dibattito di questi ultimi anni, in particolare delle sentenze della magistratura che a più riprese hanno dovuto ribadire l’importanza dell’impegno delle ONG e di tutte le navi di soccorso operanti nelle acque sud-europee. Un attivismo che ha significato il salvataggio di migliaia di vite da morte certa o altamente probabile, garantendosi di non riconsegnarle alla Libia, il Paese che non riconosce la Convenzione di Ginevra e per tale motivo – questo sì – luogo non sicuro. Sicuro come è, invece, il fare di Matteo Salvini.
Oggi è il suo terzo giorno di lavoro. Villa Patrizi sembra il Viminale, il Viminale sembra via Bellerio, la sede della Lega. Migranti, porti, confini. Guardo il calendario, strofino gli occhi, ricontrollo la data. Ho come la sensazione che il nastro si sia riavvolto. Potrebbe essere l’estate del 2018, invece è l’ottobre di quattro anni, tre governi e una pandemia dopo. Il Mediterraneo rischia di affollarsi, lo dicono i dati, e anche le pagine (nere) di cronaca. Il sospetto – con Giorgia Meloni che blatera di impraticabili blocchi navali – è che anche a questo giro gli uomini e le donne verranno dopo. Dopo la propaganda, dopo il mare e la terra, dopo un altro governo disumano.