Durante la campagna elettorale appena conclusasi, abbiamo sentito parlare molte volte di presidenzialismo e di una riforma che la coalizione di centrodestra, poi rivelatasi vincitrice, avrebbe voluto attuare con il fine, in particolare, dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica. L’argomento, tuttavia, non è mai stato affrontato compiutamente e nei dettagli da nessuno degli esponenti politici che, tra l’altro, sembrano porre una simile riforma su livelli di priorità differenti.
Il leader della Lega Matteo Salvini non ha mancato di puntualizzare, in più occasioni, che non si tratta di una priorità e che probabilmente se ne parlerà tra qualche mese, a differenza di Giorgia Meloni, che l’ha invece definita la madre delle riforme. È chiaro che all’indomani delle elezioni gli equilibri sono chiaramente cambiati, spostandosi ufficialmente a favore di Fratelli d’Italia, eppure non dubitiamo che sul punto si creeranno fin da subito attriti, in una coalizione in cui ciascuno sembra voler dettare legge.
Per fortuna, non si è avverata la previsione per cui il centrodestra avrebbe potuto ottenere i due terzi dei seggi alle Camere e così portare avanti, in autonomia, un simile stravolgimento istituzionale, senza passare neppure per la consultazione referendaria. Tuttavia, la proposta del presidenzialismo, seppur in una diversa forma, era stata avanzata anche dal programma del Terzo Polo, e dunque la compagine eletta con Renzi e Calenda potrebbe rappresentare per la destra un valido alleato su questo fronte. Ma andiamo con ordine.
Il presidenzialismo è una forma di governo tipica della democrazia rappresentativa ma che, a differenza della forma parlamentare attualmente in vigore in Italia, prevede l’accentramento del potere esecutivo nelle mani del Presidente della Repubblica, direttamente eletto dal popolo. Bisogna però precisare che gli unici, scarni, riferimenti che la compagine di destra abbia mai fatto a questa riforma fanno pensare a una forma di semipresidenzialismo, come vigente in Francia. Giorgia Meloni sembra avervi fatto espresso riferimento durante alcuni incontri elettorali delle scorse settimane, promettendo un legame diretto tra voto e governo.
Si tratta, infatti, anche della proposta di legge già presentata da Fratelli d’Italia nel 2018, che spoglierebbe il Capo dello Stato del suo ruolo di garante della Costituzione. Trattandosi della modifica di quest’ultima, sarà necessaria l’approvazione di ciascuna Camera per due volte e il buon esito della consultazione referendaria, seppur senza alcun quorum, che con ogni probabilità verrebbe chiesta da un quinto dei parlamentari dell’opposizione. Quest’ultima possibilità sarebbe esclusa solo se la riforma fosse approvata dai due terzi dei componenti di ciascuna Camera, percentuale attualmente non a diposizione della coalizione di destra, ma suscettibile di eventuali accordi e alleanze che non mancano mai tra i nostri rappresentanti politici. In aggiunta, una riforma simile era stata avanzata in diversa veste dal Terzo Polo, che aveva parlato di un Sindaco d’Italia e dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio da parte dei cittadini.
Ad ogni modo, per come è ipotizzata, la proposta di FdI presenta una contraddittorietà di base palese: se il principio cardine che garantisce la democraticità di questa forma di governo è la separazione dei poteri e l’insindacabilità reciproca fra i due organi, questo viene meno se si guarda a quanto prospettato dal partito di Giorgia Meloni. Si prevede infatti il cosiddetto istituto della sfiducia costruttiva, secondo il quale il Parlamento, pur non potendo sfiduciare il Presidente perché eletto dal popolo, potrebbe però far cadere il governo indicando un nuovo Primo Ministro (quest’ultimo sarebbe una figura intermedia tra il Consiglio dei Ministri e il Presidente della Repubblica che lo presiede). Come ricordato da voci ben più autorevoli della nostra, come il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, si tratta di un istituto iper-parlamentarista che tradisce la natura stessa del presidenzialismo.
Ad ogni modo, si tratta di uno stravolgimento di grande rilievo e non è mancato chi ha definito la forma istituzionale una parte immodificabile della Costituzione, proprio perché prevista a tutela di quei valori che l’Assemblea Costituente riteneva fondanti. Il rischio è che, perdendo il Presidente il suo ruolo di figura super partes, con poteri più o meno ampi come abbiamo visto negli ultimi anni, potrebbe riuscire a schiacciare il Parlamento, costruendo un vero e proprio regime autoritario alla Viktor Orbán (che sia questo il motivo per cui il presidenzialismo entusiasma tanto la leader di FdI?).
Non siamo sicuri che il presidenzialismo vedrà la luce presto, ma ciò che è certo è che una simile riforma produrrà una serie di interrogativi di non facile risoluzione, a cominciare dal sistema elettorale da attuare, su cui, a differenza dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica, la compagine di destra non sembra essere compatta.
Secondo molti, infatti, non potendo attuare un’elezione indiretta come quella tipica del presidenzialismo statunitense, si dovrebbe prevedere un sistema maggioritario a doppio turno, come quello vigente in Francia e, a completamento di una simile architettura, tutti quegli istituti che prevedono il controllo reciproco degli organi, ossia il cosiddetto sistema dei pesi e contrappesi. Basti pensare al potere di borsa del Parlamento, che approva bilancio e atti che comportino nuove spese, o a quello di veto del Presidente sugli atti dell’organo legislativo. Inoltre, si dovrà trovare il modo di salvaguardare l’autonomia e l’indipendenza del potere giudiziario per evitare che subisca indebite influenze dal potere esecutivo, attraverso l’elezione dei suoi membri.
Insomma, non una costruzione semplice né di facile attuazione. Al momento, sul punto, l’attuale compagine politica ci ha abituato a disattenzione e strafalcioni alla Silvio Berlusconi, che ha ipotizzato audacemente che Matterella, a seguito dell’approvazione della riforma, avrebbe immediatamente lasciato il Colle, ignorando quindi qualsiasi periodo transitorio che sarebbe invece necessario o tentando forse, con poco successo, di dare un segnale di determinazione. Che siano capaci di altro?