Una voce si leva dai cinque angoli della Terra. Dal Medio Oriente all’Italia, passando inevitabilmente da Mosca, il destino del mondo – stavolta – non può scriversi senza di loro, le donne. Protestano, fanno scudo l’una per l’altra, unite, perché questa battaglia non può più essere rimandata, e questa battaglia è da vincere adesso.
La morte di Mahsa Amini, la giovane arrestata e massacrata dalla polizia iraniana per aver indossato l’hijab in modo inappropriato – così che scoprisse parzialmente i capelli – ha scatenato violente rimostranze in tutte le città della nazione, una sollevazione popolare che mai si era vista prima, perché l’Iran soffre un governo dittatoriale, e in Iran le donne rispondono alla legge della Shari’a.
La questione femminile, però, non riguarda esclusivamente l’obbligo che le donne hanno di portare il velo sin dalla tenera età, ma è il fuoco attraverso cui arde un feroce sentimento di libertà che spinge il popolo dell’Iran a invocare il rovesciamento della dittatura i cui simboli bruciano, da giorni, assieme agli hijab e alle ciocche di capelli che le donne tagliano in segno di solidarietà a Mahsa e all’attivista Hadith Najafi, freddata con sei colpi di arma da fuoco dalla polizia incaricata di sedare le rivolte a ogni costo.
Così, tanti uomini si uniscono alla protesta, mettendo in crisi i dogmi politico-religiosi su cui ha sempre fondato l’intera società dell’Iran, mostrando un volto che il Medio Oriente ancora non conosceva. Le rivendicazioni socioeconomiche di contadini e operai si mescolano alla lotta delle loro compagne contro il regime. Sono sempre loro a gridare più forte, ma la voce, stavolta, è una sola.
Voce che cambia tono ma non perde di intensità tra i confini europei, dove le donne guidano anche la mobilitazione del popolo russo contro Vladimir Putin. I nostri figli non sono fertilizzante – sono le madri dei militari mandati a morire in Ucraina a rivendicare il proprio diritto a esistere, ad affermarsi, a chiedere libertà e giustizia. Gli scontri più violenti avvengono nella repubblica del Daghestan – quella che più ha prestato soldati all’esercito di Mosca –, dove la repressione della polizia ha anche fatto registrare centinaia di arresti e feriti.
Al machismo dello zar, dunque, si oppone lo stesso filo rosso che lega le donne e gli uomini dell’Iran, apparentemente sottile ma strenuo e deciso a non cedere, a cambiare il corso della storia. Storia che vuole farsi qui e ora, senza più rimandare, perché i diritti non sono per sempre, e vanno difesi, rinvigoriti, pretesi.
Ed ecco che a questo levarsi di cori per la parità si aggiunge la voce delle ragazze di Roma, Valeria Giuliano e Giulia Calò, che venerdì scorso hanno contestato l’ex Presidentessa della Camera dei Deputati Laura Boldrini nel corso di una manifestazione dei movimenti transfemministi in occasione della giornata per il diritto all’aborto.
Sono migliaia, anche in questo caso accompagnate da tanti coetanei del sesso opposto, segno di una rivoluzione che ha l’obbligo di partire innanzitutto dagli uomini. Sono in piazza per lanciare un segnale a chi, da qui a breve, deciderà del loro futuro, forse persino del loro corpo, e il messaggio è chiaro: nessuno tocchi i diritti. Non c’è Giorgia Meloni, a cui il coro è diretto, ma Laura Boldrini.
Il risultato, però, al contrario di quanto ci si possa aspettare non cambia. La parlamentare non è benvenuta, segno che i giovani non sono materiale da prendere per i fondelli con qualche scenetta recitata male su TikTok, e la loro memoria è tutt’altro che corta. La ragazza incalza Boldrini chiedendole di lasciare una piazza e una battaglia che – a suo dire – non le appartengono, perché il partito di cui fa parte si è già macchiato di un contributo più che rilevante allo smantellamento dei diritti e della sanità.
E allora la legge sull’aborto fatevela difendere dalla Meloni, risponde l’ex funzionaria dell’ONU ora al PD, capace di mettere in mostra, con una sola frase, tutti i difetti della pseudo-sinistra che rappresenta, snob e arrogante allo stesso tempo, distante dalle classi sociali e dalle fasce più deboli della popolazione. Ce la difendiamo da sole, è la risposta di Giulia, ed è la risposta migliore possibile, il manifesto che il mondo intero sta affiggendo sui muri di ogni città.
Perché protestare – unite e uniti – è simbolo di una democrazia che non si arrende, al fascismo quanto al neoliberismo, due facce della stessa medaglia che affamano il mondo e ne mettono in crisi i valori umanitari e sociali. Protestare dà forza alle minoranze e scaccia via il senso di solitudine a cui il mondo moderno vuole obbligarci. Protestare vuol dire vincere e cambiare la storia, scriverne una nuova direttamente da un foglio bianco, prendendo spunto da chi ha condotto la lotta prima di noi, imparando a guardarsi da chi tornerà a mettere in crisi ogni conquista.
Ogni protesta, però, si ispira e si affida a una voce, e quelle del mondo che si sta disegnando – dall’Iran all’Italia, passando per Mosca – hanno i toni di chi ha più urgenza e allora grida più forte: le donne.