C’è qualcosa di affascinante nell’essere lo spettatore della propria distruzione, qualcosa di provocatorio. Quando ho cambiato le lenzuola l’ultima volta? Quanto è profondo il mio abisso?
Da questo culto della distruzione, rifugiato nell’abisso, emerge il corpo maledetto, quello che, per la scrittrice spagnola di origine basca Lucía Baskaran, serba un antico dolore, qualsiasi esso sia.
Sono corpi martoriati dal proprio stesso spirito, come punizione per una primordiale colpa impossibile da espiare. Sono corpi maledetti che, nel romanzo della Baskaran – pubblicato nel mese di luglio da Cento Autori, nella traduzione di Lucia Perillo – sono perlopiù femminili e ruotano attorno al più maledetto di tutti: quello di Alicia, la protagonista.
Tra mobili che, di colpo, sembrano fuori posto e stanze con troppa luce, Alicia è una vedova troppo giovane. Il suo tormento si ammorbidisce quando si immerge nella vasca, trasformata in un santuario, poi, d’improvviso, il letto è troppo grande e immenso come un oceano. Minaccia di inghiottirla. In questa fluida angoscia lenta, Alicia procede a costruirsi pareti di una casa finalmente sua, seppur emotiva, seppur pericolosamente malinconica, perché al di là c’è il vuoto e lì non c’è alcuna definizione.
Chi dice che l’infanzia è il periodo più bello della vita ha una pessima memoria. Alicia è una bambina abbandonata da una madre incapace di dimostrarle cura, e crescerà con la sensazione di non essere una vera adulta, forse perché mancante di un affetto mai consumato. Ama (amaketa, in basco “mamma”) per lei è una donna il cui sporadico bacio sulla guancia appare teatrale. E teatrali sono i gesti di quegli adulti così concentrati su se stessi che – come José Antonio – pressano i figli in costrutti sociali con la conseguenza che crescano nella disperata ricerca della loro approvazione genitoriale oppure il contrario: nella fuga selvaggia da essa.
Aita (aitaketa, in basco “papà”) è invece presenza, una presenza che però, nella sua essenza solitaria, ad Alicia farà una gran paura, visto che il dolore di chi amiamo spaventa soprattutto nel momento in cui non siamo in grado di tendere la mano: temo la solitudine di mio padre quasi quanto la mia.
Alicia è un’adolescente insicura e inquieta, che non sa cosa sono le smagliature fin quando non ne sente parlare nel bagno della scuola dalla più bella della classe, quella dai lineamenti perfetti che, se si accorge di lei, è per trarla in inganno, o almeno è così che pensa Alicia, che non può impedirsi di confrontare il corpo da donna della compagna con il suo. Si tratta di un giudizio su di sé che percorre l’intero libro, in una prima persona aggressiva e smarrita che, da quando la ragazza ha avuto accesso al mondo sociale, ha continuato a condannarla a un’immagine impropria da ritoccare a seconda della performance e del pubblico.
Spettatrice di se stessa, Alicia sceglie un vestito nero, abbastanza lungo, largo, ma si colpevolizza perché ha voglia di mettere il rossetto. Bortiz – il paese dove vive ed è cresciuta – è piccolo e ognuno si aspetta di assistere alla silente manifestazione della sua pena di giovane vedova, prima fra tutti la suocera per la quale è stata, fin da ragazzina, il suo progetto da buon cristiano. Colpevole è anche perché ha una relazione, che tiene nascosta al paese per non finire alla gogna, per timore che la loro pietà – già insopportabile – si trasformi in disapprovazione pubblica.
Alla ricerca di una pace mentale che ha la consistenza della neve, la protagonista di Corpi maledetti ritrova nel tormento la sua unica alleata dell’adolescenza: Ane. In una relazione fatta di allontanamenti e riavvicinamenti, tatuaggi uguali e prime scoperte, hanno marcato insieme il confine che separa l’infanzia che marcisce e l’adolescenza che violentemente irrompe, con l’odore di incenso e il colore rosso di un rossetto.
Sulla spinta di ossessioni, compulsioni e impulsi, di fantasie di violenza e desiderio carnale, Alicia abita il mondo dei vivi da non più viva, con un cuore che continua a battere anche se a volte non lo sente. Allora si appella a Martín, il giovane marito che, nell’incidente in cui il proprio cuore ha sanguinato fino al pericardio, aveva in mano dodici fiori chiamati cuori sanguinanti perché appartenenti alla pianta erbacea originaria dell’Estremo Oriente […] conosciuta come Cuore di Maria o Dicentra:
Qual è stato il tuo ultimo pensiero? Mi hai amata? Per chi erano quei fiori?
Lucía Baskaran, che scrive per quotidiani spagnoli come El País, El Periódico e Glamour magazine, racconta quindi della natura di un lutto e del suo carattere tutt’altro che risolutivo. Una natura riscoperta dalla perdita – dell’altro e/o di se stesso – che ha le coordinate di un tempo sospeso e di uno spazio per sé mai abitato davvero.