Avete voglia di un buon film di intrattenimento? Di un film per staccare la mente e rilassarvi dopo una giornata stressante? Dimenticatevi di Men. Se bazzicate un po’ tra recensioni e forum cinematografici, avrete sicuramente sentito parlare de il film che ha fatto scappare gli spettatori dalla sala, il film più disturbante del 2022 e cose così. Ma Men è davvero tanto estremo? Cerchiamo di analizzarlo insieme (senza spoiler, non temete).
Si tratta di un horror psicologico, scritto e diretto da quel matto di Alex Garland, regista britannico che, con poche pellicole alle sue spalle, si è fatto da subito riconoscere nella sua autorialità, un po’ come il collega Jordan Peele. Nel 2015 ha debuttato con Ex Machina, splendido thriller di fantascienza anche vincitore di un Oscar, che si basava sul cosiddetto test di Turing: è possibile, cioè, comprendere se una macchina possiede intelligenza e coscienza?
Poi, nel 2018, torna con Annientamento, direttamente su Netflix (purtroppo), una miscela di orrore, fantascienza e filosofia con protagonista Natalie Portman. Qui si può già notare la piega incredibilmente inquietante che i suoi lavori stanno prendendo, portandosi dietro i fedeli Geoff Barrow e Ben Salisbury per delle musiche cariche di angoscia e tensione, in un prodotto che fa riflettere sugli enigmi dell’esistenza e sul concetto di continua mutazione.
Ed eccoci al 2022, con Men. Un’escalation di devianza sempre maggiore, tanto che per il prossimo film ci si domanda preoccupati, a questo punto, come farà ad andare oltre. Sì, perché le recensioni hanno effettivamente ragione. Men è una pellicola disturbante come la si descrive, adatta a stomaci e menti forti non per eccessivo splatter ma per scene visivamente molto di impatto. Quella fatidica che ha fatto scappare gli spettatori si trova sul finale e non presenta né violenza né sangue a fiotti. E no, non mi ha fatto scappare (ricordiamo gli avvertimenti con Cloverfield o Paranormal Activity) ma bisogna ammettere che il solo pensarla fa ipotizzare una buona dose di allucinogeni. In sostanza, non verrà facilmente dimenticata il giorno dopo.
Protagonista è una donna di nome Harper, la quale si ritira in un cottage di campagna nel piccolo villaggio di Cotson, per ristabilirsi a seguito della morte del marito James. Una morte dubbia, che cela una relazione assai complessa. Ad accogliere la protagonista è Geoffrey, il proprietario di casa, un uomo cordiale eppure piuttosto ambiguo e inquietante. In realtà, sono parecchi gli uomini ambigui che incontrerà durante la sua permanenza. A cominciare da un maniaco completamente svestito che sembra pedinarla. Harper vorrebbe semplicemente restare da sola nella natura, cercare di elaborare il lutto e riflettere su se stessa e sui suoi fantasmi ed è ciò che farà. Solo non nel modo in cui aveva previsto.
Subito salta all’occhio qualcosa di singolare, visibile fin dal trailer e dalle prime scene del film: tutti i personaggi maschili hanno lo stesso volto, interpretati dallo stesso attore. È lui. Rory Kinnear, dall’impressionante sorriso a quarantadue denti, dettaglio per cui il regista dichiara di essersi ispirato a un anime (e manga), Attack on Titan. Grazie ancora per gli incubi. Un attore che si è dimostrato superlativo, estremamente versatile e già noto per svariati ruoli, come quello dell’agente governativo Bill Tanner nei film di James Bond Quantum of Solace (2008), Skyfall (2012), Spectre (2015) e No Time to Die (2021).
A vestire i panni di Harper è invece Jessie Buckley, in grandiosa ascesa sugli schermi. Ce la ricordiamo forse per aver interpretato l’assurda protagonista femminile nell’ingiustamente ignorato Sto pensando di finirla qui (2020) e per La figlia oscura, che le è valsa la candidatura al Premio Oscar come miglior attrice non protagonista. Il fisico filiforme in abiti quasi anacronistici e quel viso glaciale la rendono enigmatica e magnetica allo stesso tempo, perfetta per un personaggio inizialmente confuso tanto quanto noi, del tutto in balia degli eventi. Eventi che sembrano non avere un senso logico. O almeno non dal principio.
Se Annientamento lasciava posto a una forte riflessione filosofica ed esistenziale, Men risulta ancora di più un’incognita. Il regista realizza una pellicola disseminata di simbolismi, che non imbocca le risposte con il cucchiaino ma lascia spazio alla discussione, al ragionamento, anche al dubbio, restando comunque fedele a una precisa scrittura. Sebbene l’incipit riproduca gli stilemi dei classici horror – una protagonista da sola in una casa immersa nel nulla –, i film di Garland prendono sempre una strada diversa e imprevista, giocando sulla tensione e sulle atmosfere. Si concentrano sul corpo e l’utilizzo del body horror sembra essere ormai un tratto distintivo della poetica del regista. Men si presta senza dubbio a varie interpretazioni in più di una scena. Tuttavia, resta chiaro quale sia il macro argomento: misoginia e relazioni tossiche. Una misoginia trattata in modo non banale o retorico, piuttosto in chiave fortemente visionaria.
Harper è una donna in cerca di una rinascita, alle prese con la dolorosa accettazione di quanto accaduto, una donna ferita, traumatizzata. Si ritrova circondata da uomini identici, diversi per età e ruolo sociale, tutti tossici per più motivi. Dal poliziotto, che minimizza la sua preoccupazione per l’uomo nudo, al ragazzino, che la insulta quando lei non asseconda il suo gioco, al vicario, che le insinua il senso di colpa per la morte del marito. È questo il motivo per cui hanno tutti lo stesso viso: come una qualsiasi vittima di abusi, il trauma è così forte da spingerla a vedere in ognuno lo stesso potenziale pericolo.
Una vittima diventa costantemente timorosa, in paranoia, pervasa dal senso di colpa anche e soprattutto per la colpevolizzazione che la società attua su tali persone. Partendo dalla sua primissima colpa, quella di essere donna, messa in scena simbolicamente con il morso a una mela del giardino, il frutto proibito, il peccato originale. Stalking, insulti, oscenità, paura di camminare di notte da sole. Cose che diventano un horror per molti ma che sono la quotidianità per tante altre. Sia chiaro, giusto per evitare l’evergreen eh ma non tutti gli uomini, il film non fa di nessuna erba un fascio, solo si limita a raccontare le vicende di un singolo individuo. Ce le mostra con il suo sguardo, con la sua percezione, motivo per cui è spesso complicato per lo spettatore capire cosa è realtà e cosa è frutto della sua mente.
Men gioca con il binomio maschile-femminile, utilizzando riferimenti pop (la maschera di Marylin Monroe, simbolo sociale di femminilità e anche della sua oggettificazione) e pagani, con figure tipiche del folklore irlandese come i bassorilievi di Sheela-na-gig e GreenMan, che Harper troverà in una chiesa. Partendo con elegantissime inquadrature e movimenti di macchina ben studiati che lasciano il tempo di gustare questo horror d’atmosfera, tra un’allucinazione e l’altra. Un’immersione panica durante tutta la prima parte, per poi sprofondare nella follia totale nella seconda, verso la dissacrante e amara riflessione su una fecondità corrotta e perseverante del mondo e del genere umano, nella ripetizione degli stessi atavici errori. Da vedere con grande consapevolezza.