L’uomo è quello che mangia? dal Settimo Quaderno
Interpretazione gretta e stolta: cioè l’uomo è volta per volta quello che mangia materialmente, cioè i cibi hanno una immediata influenza determinatrice sul modo di pensare.
Il cervello, infatti, non viene nutrito da fave o tartufi, ma i cibi vanno a sostenere le molecole cerebrali. Non abbiamo, quindi, una relazione diretta tra storia e cucina e le rivoluzioni non coincidono con mutamenti radicali della alimentazione di massa.
Il contrario è storicamente vero: cioè sono le rivoluzioni e il complesso sviluppo storico che hanno modificato l’alimentazione e creato i gusti successivi nella scelta dei cibi.
La stessa trasformazione dall’uomo nomade primitivo e cacciatore a stanziale e agricoltore non è data dalla semina, piuttosto è la condizione emergente di stanzialità che ha spinto a semine sempre più regolari. Al tempo stesso, però, Gramsci coglie nell’alimentazione un elemento di grande valore, in quanto espressione dei rapporti sociali nel loro complesso e, in questo senso, si può dire che l’uomo è (anche) quello che mangia. Così come l’uomo che non mangia esprime, attraverso l’estrema povertà, rapporti sociali brutali e incapaci di determinare evoluzioni di carattere personale o collettivo.
Il problema di cosa è l’uomo è dunque sempre il così detto problema della “natura umana”, o anche quello del così detto “uomo in generale”, cioè la ricerca di creare una scienza dell’uomo (una filosofia) che parte da un concetto inizialmente “unitario” da un’astrazione in cui si possa contenere tutto l’“umano”.
Ma l’umano è un punto di partenza o di arrivo? È possibile non cadere nelle trappole di un “residuo teologico”? La stessa filosofia non può essere ridotta a una “naturalistica” antropologia: l’unità del genere umano non è data dalla natura biologica dell’uomo; le differenze dell’uomo, che contano nella storia non sono quelle biologiche (razze, conformazione del cranio, colore della pelle ecc., e a ciò si riduce poi l’affermazione “l’uomo è ciò che mangia”…).
Definizioni di uomo dotato di spirito o di ragione, da sole. non indicano nessuna particolare unicità, il pensiero codificato in forme più o meno comunicabili appartiene a tante specie animali e del resto la stessa spiritualità è indimostrabile.
Non il “pensiero”, ma ciò che realmente si pensa unisce o differenzia gli uomini.
La natura umana è data da i rapporti sociali, dalla loro continua evoluzione ed è in questa idea del divenire che si stratifica un’unità dialettica, mai solo formale. Si può anche dire che la natura dell’uomo è la storia…: perciò la natura umana non può ritrovarsi in nessun uomo particolare ma in tutta la storia del genere umano mentre in ogni singolo si trovano caratteri messi in rilievo dalla contraddizione con quelli degli altri.
Le stesse religioni, nel loro evolversi, servono a indicare il travaglio continuo della storia, con i suoi affanni di uguaglianza e salvezza: gli anelli più potenti dello sviluppo storico.
Uguaglianza e disuguaglianza diventano così esplicite, ma solo laddove l’uomo riesce a leggerle, percepirle. Non dimentichiamo, infatti, che l’uomo è quell’animale che ha mangiato se stesso, proprio quando era più vicino allo “stato naturale”, cioè quando non poteva moltiplicare artificiosamente la produzione del beni naturali.
Abitando da poco accanto al cimitero, inizialmente avvertivo un certo disagio dal continuo viavai di bare, ma, una volta abituatomi, non colgo più segnali negativi da questo: è la vita, esattamente uguale in tal senso per ciascuno di noi. Quella marea ottusa che ci fa nascere e morire, senza sapere bene il perché. Ogni tensione, ogni lotta di uguaglianza, assume agli occhi del prigioniero Gramsci un aspetto “metafisico”, come volontà di andare oltre uno striminzito e meschino se stesso. Così l’abitudine a visualizzare gli orpelli della morte mi trasmette, vero, il senso estremo della fragilità dell’esistere, ma anche l’anelito a essere utile agli altri, avere l’illusione di esserlo, il tempo vivo per esserlo.
Granelli di sabbia che scendono in una clessidra, ma che nel loro precipitare possono anche fare qualcosa. Una finzione, forse, ma simile a quella che scaturisce da un’idea religiosa, scevra da ornamenti dogmatici ma, in un certo senso, politici. La tensione dell’individuo a evolversi dalla sua natura bestiale poggia proprio su questo io politico, insito in ciascuno di noi, sebbene in forme diverse. L’uomo, in pratica, è ciò che mangia quando pensa solo a cosa deve mangiare, a cosa dovrà mangiare e a come accaparrarsi per sé, attraverso i meccanismi criminali del turbocapitalismo, quantità di cibo che sfamerebbero milioni di uomini. Quel cannibalismo endemico che ha accompagnato la storia, spezzandola nei suoi voli pindarici, nei suoi sogni.
I grandi temi dell’umanità, dalla pace alla fame del mondo, non sono parole, ma azioni di contrasto a destini bruciati, ingiusti. Temi di agire politico per eccellenza, e come tali devono essere intesi, in modo strettamente e unicamente politico e, quindi, nella capacità di leggere e percepire la realtà per poterla modificare.
Tutto è politica, anche la filosofia o le filosofie e la sola “filosofia” è la storia in atto, cioè è la vita stessa.
Contributo a cura di Luca Musella