Arrivare a fine mese è un’espressione abusata, che si sente dire troppo spesso e che, in conclusione, finisce con il perdere di valore. Smettiamo di chiederci chi siano le persone che effettivamente non riescono ad arrivare a fine mese e ci diciamo che probabilmente non ne esistono. Siamo ignari del fatto che, in Italia, un terzo dei lavoratori guadagna meno di mille euro al mese. Un terzo. Ecco, quelli, i cosiddetti working poor, a fine mese non ci arrivano. Si chiama classe lavoratrice povera, ed è quella composta da famiglie che, nonostante uno o più impieghi, anche stabili, non guadagnano abbastanza per vivere.
La condizione dei lavoratori poveri dipinta dall’ultima analisi dell’ISTAT è scandalosamente inaccettabile. Esistono persone, esistono famiglie, che non riescono a coprire con il loro stipendio la spesa per tutto il mese. Ci sono famiglie che non possono pagare sia l’affitto che le bollette, e che a volte del riscaldamento – o dell’aria condizionata, ora che il caldo inizia a essere più pericoloso del freddo – devono fare a meno, dando vita al sempre più diffuso fenomeno della povertà energetica. Esistono famiglie che non riescono a disporre di tutti i beni di prima necessità, che non possono soddisfare i bisogni primari della sopravvivenza dell’essere umano perché, sebbene lavorino, non guadagnano abbastanza.
In Italia, di difficoltà a trovare lavoro ne abbiamo a bizzeffe. In particolar modo, se si è giovani o donne – e non sia mai essere contemporaneamente giovani e donne – o si appartiene a qualche categoria discriminata, il lavoro stabile è un’utopia e i lavori sporadici e sottopagati sono l’ordinario. Eppure, sul tema, i drammi dell’Italia non si fermano qui, perché negli ultimi quindici anni è cresciuta esponenzialmente la quantità di persone con un impiego stabile che guadagnano meno di quanto sarebbe necessario per una vita in qualche modo decente.
Sono infatti considerati lavoratori tutti coloro che risultano occupati almeno sette mesi l’anno, dimostrando dunque un reddito che sia, indipendentemente dal suo valore, stabile e regolare. E di tutti i cittadini italiani che corrispondono a questa definizione, sono considerati working poor quelli che hanno un reddito familiare inferiore al 60% della mediana del reddito disponibile. Secondo questi indicatori, nel 2019 la classe lavorativa povera italiana era composta dall’11.8% dei lavoratori, 3 punti sopra la media europea.
Questi numeri sono però calcolati in base al reddito familiare, dipingendo dunque una situazione anche migliore di quella reale, che non tiene conto delle disparità all’interno dello stesso nucleo o dell’impossibilità di determinati soggetti di rendersi autonomi, poiché incapaci di sostenersi con il solo introito che percepiscono. In un Paese in cui il reddito medio non cresce da decenni, anche la percentuale di working poor è aumentata a dismisura, abitando l’Italia di cittadini che sono di fatto poveri sebbene abbiano un impiego regolare.
Quella della distribuzione delle ricchezze è la prima delle cause che si ricercano. Se una fetta così grande di lavoratori guadagna meno della media, vuol dire che coloro che alzano la media – una fetta che si assottiglia man mano che i poveri aumentano – guadagnano molto di più, in modo sproporzionato. È questa una delle tanto dibattute questioni sulla giustizia sociale, che non solo vede grandi ricchezze e privilegi concentrati nelle mani di pochi, ma che peggiora sempre di più la condizione degli svantaggiati, e allarga la popolazione composta da working poor sempre di più.
Nel World Inequity Report 2022 pubblicato a inizio anno è stato reso chiaro che questa condizione non è solo italiana. Le differenze di reddito e di ricchezza nel mondo si sono ampliate e oggi si è giunti a un livello di diseguaglianza superiore a quello di fine Ottocento. La riduzione delle differenze partita dal benessere del secondo dopoguerra si è arrestata negli anni Ottanta, e da allora la situazione è molto peggiorata, a tal punto che oggi il 50% più povero della popolazione mondiale dispone del solo 8% del reddito globale, mentre l’1% più ricco possiede il 20% del reddito e il 38% delle ricchezze.
L’evidente squilibrio tra ricchezza e povertà non si ferma però a questo, poiché la condizione dei working poor dipende anche da altri fattori. La condizione della classe lavorativa povera, infatti, non dipende solo dall’insufficienza dei salari, incapaci di soddisfare i bisogni primari della vita, ma è il risultato di un processo. Il tempo del lavoro ha un ruolo fondamentale, poiché le ore di lavoro richieste per ottenere un salario adeguato sono spesso troppe e non assicurano un buon equilibrio tra impiego e vita privata. Nel processo che causa la povertà lavorativa sono spesso anche inseriti la composizione familiare – per esempio quanti redditi ci sono in famiglia e da quanti figli a carico è composta – nonché ovviamente l’azione redistributiva dello Stato. Oggi in Italia sono working poor tutti i lavoratori precari, gli irregolari, i lavoratori dei settori agricolo e domestico, coloro che sono costretti a orari part-time involontari per diverse ragioni, i lavoratori stagionali e quelli discontinui. La somma di tutti questi fattori porta l’Italia a essere ai primi posti in Europa per concentrazione di working poor.
Guardare alla situazione su larga scala, ai problemi del Paese o a quelli globali, rischia però di far perdere di vista il problema, quello delle persone reali, che non guadagnano abbastanza per soddisfare il costo della vita e arrivare al tanto abusato fine mese. Una condizione che non ci si aspetta in un Paese moderno, occidentale, sviluppato, che invece non è in grado di assicurare ai propri cittadini un reddito tale da vivere serenamente senza la necessità di lavorare più ore possibile pur di guadagnare di più. Un Paese nel quale non è solo difficile trovare lavoro, ma in cui diventa sempre più impossibile trovare lavori che bastino alla sopravvivenza. Ed è assurdo e ingiustificabile che nell’era del benessere siano ancora i bisogni primari, relativi alla mera sopravvivenza, quelli per cui bisogna lottare.