Il leader dal Sesto Quaderno
La mia vita trascorre sempre ugualmente monotona. Anche lo studiare è molto più difficile di quanto non sembrerebbe. […] Sono assillato (è questo fenomeno proprio dei carcerati, penso) da questa idea: che bisognerebbe fare qualcosa “für ewig”. […] Insomma, vorrei, secondo un piano prestabilito, occuparmi intensamente e sistematicamente di qualche soggetto che assorbisse e centralizzasse la mia vita interiore.
Il leader Gramsci che scivola nell’annullamento della prigione. Quel “per sempre”, scritto in tedesco come un ordine perentorio a un’autodisciplina intima che il prigioniero dà a se stesso. La voragine del vuoto, dei giorni scanditi dal nulla dove, però, prende corpo e sostanza una nuova forma di leadership: quella del capo spirituale, della guida che forma e informa i leader e i militanti del domani, per sempre, appunto.
Il prigioniero Gramsci ha fretta di incidere nella realtà, di lasciare un segno che non sia di impotenza, ma di forza e speranza. Punti di congiunzione dove creare un sapere condiviso: tutta l’ideologia liberale, con le sue forze e le sue debolezze, può essere racchiusa nel principio della divisione dei poteri e appare quale sia la fonte della debolezza del liberalismo: è la burocrazia, cioè la cristallizzazione del personale dirigente che esercita il potere coercitivo e che a un certo punto diventa casta. Quale lungimiranza può essere paragonata a questa? Così come intravede nelle derive bonapartistiche il futuro delle democrazie occidentali: Onde la rivendicazione popolare di eleggibilità di tutte le cariche, rivendicazione che è estremo liberalismo e nel tempo stesso sua dissoluzione (principio della Costituente in permanenza ecc.; nelle Repubbliche l’elezione a tempo del capo dello Stato dà una soddisfazione illusoria a questa rivendicazione popolare elementare).
Il ritratto del leader, quindi, prende spunto dall’idea principe del pensiero gramsciano: una coscienza di popolo, unita, formata e informata non ha paura di costruire una leadership efficace, dinamica e diffusa. Quasi come in una piramide capovolta, dove l’unità di intenti crea gerarchie funzionali alla conquista del potere e al suo esercizio. L’idea nostalgica di un partito che rivendica il diritto di essere pura testimonianza, di opposizione a oltranza, senza avere l’ambizione di dirigere il Paese, non gli appartiene. Il leader deve essere ambizioso, dove però ogni meschina piccola ambizione deve scomparire per far posto alla grande ambizione.
La grande ambizione, oltre che necessaria per la lotta, non è neanche spregevole moralmente, tutt’altro: tutto sta nel vedere se l’ambizione si eleva dopo aver fatto il deserto attorno a sé, o se il suo elevarsi è condizionato (consapevolmente) dall’elevarsi di tutto uno strato sociale e se l’ambizioso vede appunto la propria elevazione come elemento della elevazione generale.
La grande ambizione, che è indissolubile dal bene comune, è immune dalla demagogia: nel senso deteriore significa servirsi delle masse popolari, delle loro passioni sapientemente eccitate e nutrite, per i propri fini particolari, per le proprie piccole ambizioni, che culmina nel cesarismo e nel bonapartismo. Il leader non pone, dunque, se stesso come insostituibile, non crea un deserto intorno a sé, ma favorisce la crescita di altri leader che possano andare a costruire una stabile piramide di potere autonoma al leader stesso. Rischiosissimo, quindi, un rapporto morboso e diretto con le masse, mentre è indispensabile la costruzione di una leadership diffusa, dove il leader pone tra sé e le masse uno strato intermedio. Una piramide di potere, così capovolta, rende il leader espressione diretta delle masse, esempio e guida, ma al tempo stesso costruisce tutti i livelli intermedi di rappresentanza che siano di territorio o di argomenti.
Se è vero che ogni partito è partito di una sola classe, il capo deve poggiare su di questa ed elaborare uno stato maggiore e tutta una gerarchia; se il capo è di origine carismatica, deve rinnegare la sua origine e lavorare e rendere organica la funzione della direzione, organica e coi caratteri della permanenza e continuità.
Meraviglioso, quindi, che il leader che ci rappresenta sia collegato d’amore alla base. Etica, coerenza politica, trasparenza, assenza di meschini interessi personali rappresentano un punto di partenza imprescindibile: il leader così è esattamente emanazione e corpo dei nostri pensieri, delle nostre azioni. Però questa immedesimazione non deve avere il carattere della deità, della morbosità, dell’attrazione fisica. Altrimenti la piramide del potere ha solo vertice e base, ma al suo interno è vuota.
Costruire ruoli e sapienze significa dotare la leadership di efficacia e aggressività, indispensabili a mettere in atto quella progressione geometrica che può consentire la presa del potere. In questo senso dà molta fiducia a noi militanti sapere esattamente cosa farà o dirà il nostro leader su quel determinato argomento. Però, è anche vero che poi è un dramma se sbagliamo aspettative e diagnosi su tutti gli altri membri del medesimo schieramento. Una leadership condivisa è anche costruire fiducia tra militanti e quadri di partito: un corpo unico che si muove in simbiosi e senza scatti.
Contributo a cura di Luca Musella