A muro. L’urlo di rabbia di Charles Leclerc interrompe la quiete del primo pomeriggio di domenica: potrebbe vincere la gara, invece, il leader del gp di Francia commette un errore fatale e, ora, eccolo fuori pista. Anche oggi, sul podio, suona l’inno olandese, la Ferrari ha perso un’altra occasione. Sarà il colore della livrea, quel rosso un tempo ruggente e adesso sbiadito nelle intenzioni, o forse il caldo che dà alla testa, ma la sconfitta del Cavallino rampante somiglia a un altro testacoda. Un’altra occasione sprecata. Francofono come il monegasco, ma meno lucido nell’analisi post-gara, a finire a muro, stavolta, è Enrico Letta, il professore, il numero uno del PD. Sulla carta, guida il centrosinistra, nella pratica non ha ancora la patente.
Il nipote di Gianni dà il via alla prima campagna elettorale d’estate della storia repubblicana sulla stampa orfana di Mario Draghi e – chissà quanto convinto – lancia la sfida a Giorgia Meloni perché, dice, «la scelta alle elezioni del 25 settembre è chiara: o noi o lei». Stando ai sondaggi più recenti, infatti, il Partito Democratico e Fratelli di Italia si contendono un possibile vantaggio alle urne e ora che queste si avvicinano l’attenzione, ovviamente, è tutta su di loro. Su una sfida che qualche anno fa avremmo detto improbabile e, invece, si presenta adesso più concreta che mai.
«Ad agosto saremo in tutte le città semideserte, nelle periferie, per parlare con chi in vacanza non è potuto andare. Porteremo la solidità delle relazioni umane e le nostre proposte. Come recitava l’ultima frase di Berlinguer, sarà una campagna casa per casa, strada per strada» dichiara Enrico Letta. L’intervista è lunga, eppure quali siano le proposte e quali le relazioni umane non è dato saperlo, nemmeno dopo un’attenta lettura. Il riferimento a Berlinguer, invece, è la cosa più di sinistra che la chiacchierata riesce a produrre.
Il segretario dem, preannuncia, sta lavorando a una lista aperta ed espansiva che prenderà il nome di Democratici e progressisti, un progetto che punta a Italia 27 dopo aver governato e trasformato il Paese. Un auspicio, il suo, che per chi ha visto l’Italia governata – e trasformata o, meglio, sfigurata – dal PD in questi anni suona più come una minaccia. Perché se la sottoscritta preferirebbe l’espatrio a un governo di Giorgia Meloni, non può negare che quanto ci è stato sottratto in termini di diritti e di potere d’acquisto, con sempre maggiore insistenza e violenza proprio in questi stessi anni, porti perlopiù la firma del Partito Democratico: da Renzi a Gentiloni, da Minniti al Conte giallorosso. Dalla Buona Scuola al Jobs Act, dall’eutanasia alla cannabis, dallo Ius Soli al Ddl Zan. Scelte – o mancate scelte – che Enrico Letta non rinnega. Anzi.
«Parleremo con tutti coloro che sono interessati e disponibili a costruire un progetto politico vincente e che sia nel solco condiviso dalle forze che hanno dato la fiducia al governo Draghi. Ecco, il riferimento a Draghi è il perimetro della serietà e del patriottismo, la base di partenza». La base di partenza, il patriottismo, il nodo sta tutto qui: ancora una volta il PD fa una precisa scelta di campo. Sbagliata ma coerente: dalle banche al banchiere – per citare qualcuno – mai dalla parte del popolo. Eppure, si chiama centrosinistra. Eppure, nei fatti, c’è tanto centro tendente a destra e poca, zero, sinistra.
Non è un caso che in vista delle prossime elezioni Enrico Letta si concentri sulle alleanze e non sui temi: Calenda – «il più consistente dal punto di vista dei numeri» –, Speranza, Di Maio – «tra le personalità che vengono dal M5S è la più influente e con lui sicuramente continuerà il dialogo già aperto» –, Renzi, il fuoriuscito, il rinnegato, il meno di sinistra che siede in Parlamento. Persino Gelmini, Carfagna e Brunetta – «tre persone che hanno dimostrato grande coraggio, lasciando il certo per l’incerto, e un seggio garantito. Meritano apprezzamento». L’unico a restare fuori, al momento, sembra Giuseppe Conte con le Cinque Stelle rimaste a illuminare il cammino di un movimento ormai arrivato al capolinea. Il PD, dice Letta, ha interrotto qualsiasi forma di dialogo con chi ha tradito Draghi e, dunque, il Paese. Il loro, non quello reale.
Insomma, pur di sconfiggere i Fratelli di Italia che sembrano nettamente in vantaggio, destinati a vincere perché, al pezzotto, si preferisce sempre l’originale, il Partito Democratico cerca di accogliere tra le proprie fila un po’ tutti. Servono i numeri, la poltrona, serve assicurarsi un futuro che ora traballa. Gli ideali, semmai ci fossero – e non ci sono – possono anche farsi da parte: «Se non convinciamo a votare per noi elettori che stavano con il centrodestra, magari anche alle ultime amministrative, la partita non si gioca nemmeno». E non si gioca, aggiunge, perché «abbiamo in vigore la peggiore legge elettorale possibile». Eppure il tempo per cambiarla il PD avrebbe potuto trovarlo.
Avrebbe potuto trovarlo per lo Ius Soli, per ripristinare l’articolo 18, per abolire i contratti a tempo determinato, per ridiscutere – migliorandolo – il reddito di cittadinanza, per contrastare la precarietà, per introdurre il salario minimo, per smettere di finanziare la Libia e pensare a una seria riforma a tutela dei migranti, di quei tanti, troppi, che muoiono nel nostro mare. Avrebbe potuto molte cose, ma non le ha fatte. E non perché è mancato il coraggio, come a volte si tenta di giustificare, ma perché è mancata la volontà di agire. La volontà, vera, di fare. Perché non è mai il momento giusto.
Al contrario, giusto per il Partito Democratico sembra l’elettorato ex Forza Italia, quello smarritosi dopo il cambio casacca di Silvio Berlusconi che ha svenduto il centrodestra alla Lega sperando nel Senato. Un elettorato che con la sinistra non avrebbe niente in comune se non si trattasse del PD travestito da PCI. Se non si trattasse di mera campagna elettorale.
«Come spiegherà agli elettori la differenza tra la sua Italia e quella di Meloni?» chiede sulle pagine de La Repubblica Stefano Cappellini. «Il sole e la luna» risponde Letta. «Bisogna marcare la distanza, il bivio, rendere evidente che parliamo di due Italie profondamente diverse. Stare con noi vuol dire salvare l’ambiente, con loro tornare al nero fossile. È l’Italia di chi vuole stare in Europa contro quella di chi vuole i nazionalismi, la salute pubblica per tutti e la salute differenziata, da una parte l’integrazione e dall’altra l’esclusione, la progressività fiscale a fronte della tolleranza dell’evasione, la società dei diritti e della diversità e la negazione dei diritti e dei progressi sociali. E sia chiaro, su tutti questi temi non puntiamo alla conservazione dell’esistente, ma a cambiare le cose, portare il Paese in un futuro più giusto e più moderno».
È l’Italia della propaganda piddina che parla il politichese populista, il politichese di Giorgia Meloni e del centrodestra tutto, parole vuote, parole già smentite dai fatti. D’altro canto, non serve andare troppo indietro per smontare punto per punto ogni distanza marcata nella risposta del segretario dem: basta guardare, ad esempio, ad appena pochi mesi fa, a quando l’esecutivo Draghi – tanto rivendicato da Letta – firmava il decreto con cui stabiliva il quartier generale del gruppo interventi speciali (GIS), del reggimento paracadutisti Tuscania e del nucleo cinofili dell’Arma dei Carabinieri a Coltana, a sud di Pisa, all’interno di una zona protetta che verrà dunque smantellata. Il provvedimento è del governo dei migliori, sostenuto dal Ministero della Difesa (Guerini, PD), appoggiato dalla Regione Toscana (Giani, PD) e sulle orme del potenziamento della base americana di Camp Darby del 2017 (Gentiloni, PD). Alla faccia dell’ambiente come tema intorno al quale far ruotare la nuova idea di Paese.
Potremmo poi parlare di Ilva, di TAV, di TAP, delle trivelle. Dei tagli alla Sanità – e solo il Covid sa quanto ci sono costati –, dell’evasione che aumenta e non diminuisce, dei diritti che lo stesso Partito Democratico ha sempre detto divisivi e mai fondamentali. Potremmo parlare delle politiche del lavoro a tutela delle grandi aziende, dei salvataggi delle banche, della criminalizzazione del dissenso. Potremmo parlare di tanto e accorgerci che chiunque vinca il prossimo 25 settembre a Palazzo Chigi siederà comunque il centrodestra. Così, come è da tempo nel nostro Paese.
Ecco che, allora, a rompere la quiete di un pomeriggio d’estate non è più Charles Leclerc, l’urlo del pilota che rischia di veder sfumare il sogno mondiale. È l’urlo di un elettorato che non sa più a che santo appellarsi. Torna in mente Corrado Guzzanti: «Mi sembra che l’unico tra noi due che sta facendo uno sforzo per evitare che io ti meni sono sempre io, la stessa persona che poi, prima o poi, ti menerà. E dai, su, fai uno sforzo». E dai, su, fai uno sforzo, chiede l’elettore che si crede di sinistra al Partito Democratico. Ma, per quanto ci provino, i dem non sanno nemmeno da dove iniziare.