Il caldo torrido avvolge la città di Napoli. La coppia del momento – turisti e clochard – riempie le pagine dei giornali. Succede così ogni estate: appena i primi tedeschi con calzini e infradito approdano nel capoluogo campano, i cumuli di monnezza sembrano più puzzolenti, i palazzi più fatiscenti, i motorini più rumorosi. Lo sguardo del turista con la camicia hawaiana ci mette in imbarazzo, proviamo vergogna per l’incuria che regna per le strade. Trolley griffati fanno slalom tra escrementi e cartoni e – a detta de il Mattino – la povertà alita sul collo della Napoli turistica.
Proprio in questi giorni, in posizione fetale, un senzatetto è morto sotto ai portici del Duomo. Non ne conosciamo il nome, è un’identità vaga che si accorpa al concetto di degrado urbano. Il cordoglio è durato meno di due giorni, meno dell’agonia dell’uomo. Poco dopo, è apparsa la notizia di una turista giapponese che fotografava le coperte sotto i portici: Duomo di Napoli regno dei clochard: slalom tra materassi e cartoni. È ripresa la polemica.
Le zone che dovrebbero essere i biglietti da visita di Napoli, cartoline di una città moderna e lussuosa, si trasformano in labirinti di sporcizia e abbandono. Il Comune, però, ci aveva provato a evitare la figuraccia estiva. La nuova giunta si era prodigata in un piano anti-degrado: come una mamma che indice le pulizie di primavera prima dell’arrivo dei parenti, così l’Amministrazione aveva tentato lo sgombero dei clochard in Galleria. E non solo, anche quello degli scugnizzi con il Super Santos. Una serie di buffe delibere aveva travolto Napoli – alcune prontamente ritirate – bollando bambini e panni stesi come nemici del decoro. Ma non si tratta solo di goffi tentativi capaci di strappare un sorriso: a Palazzo San Giacomo, da tempo, si respira la voglia di rimettere in riga la città.
La morsa si è stretta su alcune realtà autogestite. Tira una brutta aria per Mezzocannone Occupato, mentre su Sgarrupato ed Eta Beta si è già abbattuta una tormenta. Per chi non li conoscesse, si tratta di spazi occupati da più di sette anni nel quartiere di Montesanto. Due anni fa, questi spazi hanno siglato un patto con il Comune di Napoli, in cui si stabilivano linee guida per attività rivolte ai giovani. Ma orrore: dopo un’ispezione, si è scoperto che le iniziative non coinvolgevano giovani, bensì bambini. Sì, le stesse ripugnanti creaturine che deturpano Napoli con i loro Super Santos. Doposcuola, raccolte di alimenti, addirittura tornei di calcetto!, tutte queste oscenità avvenivano tra le mura dello Sgarrupato all’insaputa degli assessori. Per questo, si minaccia lo sgombero e l’affidamento degli spazi a nuove associazioni.
Le attività dello Sgarrupato erano un successo. Però, il patto aveva incasellato le iniziative del polo in una fascia ben precisa: dai 16 ai 35 anni, niente bambini. Una fascia con poco significato di per sé: a 13 anni si è bambini al Vomero, ma non in tutta Napoli. In un quartiere con tassi elevati di dispersione scolastica e criminalità minorile, un torneo di calcetto o un doposcuola assumono un ruolo totalmente diverso da quello che svolgono altrove. Ma, soprattutto, la grande partecipazione a queste attività testimoniava un bisogno forte nel quartiere. Un bisogno non intercettato dal patto.
Però, Palazzo San Giacomo, invece di riconsiderare le proprie posizioni e riplasmare i suoi progetti sulla base delle necessità di Montesanto, ha deciso di stroncare ogni iniziativa. Questo bisogno non è stato codificato, dunque non esiste. Non era previsto, e non deve essere soddisfatto. Nel mondo delle amministrazioni, non è il linguaggio burocratico a doversi adattare alla realtà, ma la realtà al linguaggio burocratico.
Le burocrazie, secondo Benjamin Bratton, lavorano predefinendo gli esiti desiderati e poi andando a ritroso per codificare le interazioni che li potrebbero garantire. Questo modo di operare, cercando di rendere la realtà schematica e incasellabile, porta a una standardizzazione dei processi d’innovazione. Non c’è spazio per l’elasticità o per immaginari alternativi, i modelli di città cominciano a essere elaborati in serie, come se fossero dei franchise. Le città devono diventare esperienze facili, consumabili, che non mettano in crisi i propri avventori. È raro che un turista – tesi avanzata nel libro Incuria – desideri trovarsi fuori dalla propria zona del confort. Anzi, la ricerca ovunque: vuole stare “come se fosse a casa sua” ma con sfondi differenti. Vuole esiti predeterminati: la foto in Piazza Plebiscito, la pizza a portafoglio, lo shopping in galleria. Questi momenti devono essere offerti senza elementi disturbatori, senza clochard, senza sofferenza. La città deve essere un’esperienza di semplice consumo, facile e rilassante. Perciò, ogni Municipio rivendica il diritto alla coolness, al turismo, al lusso.
Il modo migliore per raggiungere questi obiettivi, sembra “fare come Milano” – rendere ogni angolo della città perfetto e asettico. Proteggere le fasce privilegiate dal contatto con la povertà. Ma la smart city milanese è l’unica città del futuro che riusciamo a immaginare? Walter Benjamin chiamava Napoli la città porosa: non omogenea e compatta, ma ibrida e multiforme. Ogni quartiere ha un’identità propria, si muove attraverso dinamiche ed equilibri unici, non assimilabili al resto. E queste identità non rimangono isolate, ma si mescolano e compenetrano inesorabilmente, creando risultati sempre differenti. Nessuna situazione, per come essa appare, è pensata una volta per sempre. Nessuna figura reclama il suo “così e non altrimenti”. Nulla è definito e definitivo.
Questo crea due aspetti disturbanti. Il primo è l’imprevedibilità: ciò che è vero per un quartiere potrebbe non esserlo più dopo pochi mesi. Il secondo è la complessità: non è possibile elaborare piani standard di riqualificazione della città, le necessità e dinamiche di ogni quartiere non sono omogenee. Servono soluzioni specifiche, elastiche abbastanza da trasformarsi assieme al tessuto sociale. In una situazione di complessità crescente, ogni progetto predeterminato è destinato al collasso. Sicuramente, la complessità non è facilmente consumabile. Non attrae i turisti e rende difficile il franchising – niente brand della smart city, nessuna app può sbrogliare una matassa così ingarbugliata.
Neanche l’aspetto architettonico aiuta. Nel saggio Napoli. Contro il panorama viene spiegato con cura come, a causa di una serie di processi, il capoluogo campano sia rimasto fuori dai grandi processi di rigenerazione che hanno caratterizzato lo sviluppo urbano dell’ultimo trentennio. L’edilizia italiana ha virato verso musei e poli scientifici concepiti come scatole pubblicitarie per catturare nuovi pubblici e attraverso cui piazzare meglio la città sul mercato immobiliare globale. Ma l’immobilismo edilizio di Napoli ha evitato che la città potesse concorrere con le altre metropoli attraverso dinamici flussi di progetti demenziali, quartieri smart e green, musei ibridi e polifunzionali, torri iconiche in grado di alimentare il proprio “orgoglio”. Un’ibernazione forzata, che ha imposto che i processi di rigenerazione avvenissero in altri modi.
Secondo la sociologa Saskia Sassen, ogni città ha una parte non regolata dalle amministrazioni, che si sviluppa attraverso un sistema dinamico formato da attori locali, scambi e cooperazioni non misurabili o remunerabili. Si chiama parte informale, e non ha bisogno di grandi progetti urbani per crescere. È la parte degli spazi autogestiti, delle rassegne culturali indipendenti, delle reti nate dal basso. Nell’informalità c’è un’enorme ricchezza: la partecipazione attiva degli abitanti della città alla sua metamorfosi. Forse, i tre elementi disturbanti – imprevedibilità, complessità e informalità – potrebbero non essere solo degli svantaggi, ma un terreno fertile per nuove possibilità.
È ribadito in Napoli. Contro il panorama: Napoli potrebbe liberarsi del pittoresco e cercare di fermare l’emorragia di abitanti che stanno scappando a gambe levate da una città dove possono lavorare solo come camerieri o affittacamere. Potrebbe attirarli per mezzo di una gamma di nuovi desideri meno banali di un’apericena di lusso sul mare. È una possibilità remota, ma è ancora concepibile grazie alla lunga deviazione dal corso degli eventi. In genere gli ibernati, nei film di fantascienza, si trovano coinvolti in una grande quantità di disavventure in contesti distopici […] ma alle volte riescono a cambiare il corso della storia.
Napoli ibernata, Napoli immobile. Eppure, non immobile davvero. In una città in cui il tempo si è fermato per qualche anno, c’è spazio per un nuovo corso, una time variant. E se invece di seguire il solco della smart city, della turistificazione selvaggia, della crescita a tutti i costi, ci rendessimo conto che siamo diversi? E che forse non è un male? Negli spazi autogestiti nel mirino di Palazzo San Giacomo – perché non messi a reddito – si sono nel tempo raggruppate persone dalla Germania, dalla Francia, dall’Inghilterra. Non turisti, ma artisti e innovatori che hanno visto in Napoli una possibilità. Se ci parli, ti diranno che in questa città c’è lo spazio per creare al di fuori delle logiche consumistiche, uno spazio che a Londra e Milano manca. Non sono avventori-consumatori, né designer di brand di lusso, ma abitanti, trasferitisi qui in pianta stabile, che interagiscono e cooperano con le comunità dei quartieri.
Napoli potrebbe essere un rifugio. La sua complessità impedisce la monetizzazione, ma non è detto che non possa attrarre altro: persone interessate a restare. Chiunque non si riconosca nella città del lusso, chiunque si senta alienato nelle città del consumo, potrebbe trovare nelle reti informali una casa. Un luogo abbastanza poroso da assorbire nuove idee e immaginari, reinventando se stesso. Siamo sul punto di una svolta: o la città diventerà l’ennesima trappola turistica, piena di gadget e selfie opportunity, o muterà in qualcosa di differente. Una possibilità c’è, ma se l’Amministrazione non riconoscerà il valore di questi spazi di aggregazione, di queste reti, se sceglierà di stroncare le iniziative degli abitanti per favorire l’economia e il turismo, ucciderà Napoli.