Boris Johnson è il volto del fallimento britannico. Ieri, dopo gli ultimi mesi trascorsi appeso a un filo, il Primo Ministro è stato costretto alle dimissioni dal suo stesso partito, stanco di dover rispondere delle sue buffonate, del suo disprezzo per le regole e la lealtà.
L’inquilino del civico 10 di Downing Street ha trascorso le ultime ore da asserragliato, con i membri del suo esecutivo che, uno dopo l’altro, lasciavano i propri incarichi istituzionali per fare terra bruciata attorno al fortino di BoJo, che non voleva saperne di alzare bandiera bianca. Solo dopo aver registrato una trentina di dimissioni e l’addio del Cancelliere dello Scacchiere, Nadhim Zahawi, nominato appena due giorni prima, Johnson ha ceduto alle pressioni dei suoi e ha annunciato che farà spazio al prossimo Premier non appena il Parlamento sarà in grado di nominarlo.
Dimissioni a metà, dunque, nonostante il parere contrario della maggioranza che spingerà ancora affinché del biondo che fa impazzire il mondo non si abbiano più notizie già nei prossimi giorni. A ogni modo, è solo questione di tempo: la Gran Bretagna sta per salutare uno dei peggiori esponenti della politica recente del Regno.
Lascia un Premier e un uomo dimostratosi abile soltanto nella manipolazione della realtà, nello stravolgimento del senso tangibile delle cose, come nel corso del suo breve discorso d’addio quando, rivendicando i suoi (presunti) meriti, Johnson ha messo in cima alla lista delle cose di cui si è reso orgoglioso la Brexit, a conti fatti, quel processo che, tra posti di lavoro persi e/o rimasti vacanti, dazi doganali alle stelle, il difficile approvvigionamento di benzina o latte sofferto lo scorso inverno, aveva anticipato in UK la crisi che oggi vive l’intero continente europeo.
Già, perché le assurde politiche della Brexit avevano reso difficili – e in alcuni casi impossibili – i rinnovi di migliaia di contratti del personale extracomunitario, ossia di qualunque individuo che non fosse nato sotto la bandiera inglese, scozzese, gallese o dell’Irlanda del Nord, e la carenza improvvisa di camionisti o dipendenti dell’industria alimentare aveva reso critici anche gli approvvigionamenti essenziali. In più, la pandemia aveva messo in crisi anche il già malconcio sistema sanitario nazionale, l’NHS, creando alle casse di Londra un buco finanziario incalcolabile.
A questo quadro già drammatico di per sé, si sono poi aggiunte le feste private organizzate dal Premier in pieno lockdown e lo scandalo sessuale che ha investito il vice capogruppo dei conservatori, Chris Pincher, colpevole di molestie adoperate nei riguardi di numerosi colleghi e assistenti. Johnson, nonostante fosse a conoscenza di questi comportamenti a dir poco deprecabili, ha negato per anni il coinvolgimento del suo delfino, mettendo in imbarazzo la coalizione che, nel frattempo, inviava Ministri davanti alle telecamere a difendere l’indifendibile.
Non fosse che chi deciderà del futuro di Londra non è, affatto, meglio di Boris Johnson, ci sarebbe da esultare ed essere ottimisti almeno quanto le pagine del Times, che oggi brinda a una ritrovata serietà del Parlamento. I colleghi di Oltremanica – nel tentativo di restituire a Downing Street un po’ dell’aplomb che solitamente si associa alla bandiera britannica – fanno finta di non ricordare che è proprio al partito conservatore, che adesso lo scarica, che si deve la nomina di Johnson, voluta per la sua capacità di convincere gli inglesi che delle regole avrebbero potuto fregasene altamente come egli stesso aveva fatto per tutta la sua carriera, sfidando così l’Europa attraverso la Brexit.
Come un editoriale dell’Economist ben descriveva, gli elettori che erano stanchi delle sottigliezze lo apprezzavano, come i bambini amano le pagliacciate. Solo che, poi, anche i bambini crescono e delle scemenze non ne hanno più voglia, e la leadership di Johnson – come anticipavamo in un articolo dello scorso gennaio – è ormai materiale per le polverose pagine di storia del Regno di Sua Maestà.
Con l’addio di Johnson finisce in malora l’ennesimo tentativo dell’antipolitica di fare politica, del populismo di prendersi cura dei bisogni reali delle persone. A Johnson e ai tanti buffoni che ne imitano le gesta – non mancano neppure tra i confini di casa nostra – resta soltanto la gloria di elezioni vinte a furor di popolo soffiando sull’insoddisfazione, creando nemici ad hoc per nascondere l’inettitudine della propria azione governativa, una magra consolazione che deflagra, poi, nell’inutilità di una proposta politica che non pone le sue basi su nulla.
La natura beffarda di Johnson, e di quelli come lui, trova terreni fertili e li rende presto inabitabili. Il leitmotiv è sempre lo stesso, con l’immigrazione a pagare il conto più alto nell’immediato e le piccole aziende a soffrire delle conseguenze subito dopo, come i migliaia di annunci rimasti vacanti che campeggiano in tutte le città del Regno Unito stanno a sottolineare. Londra, però, ha finalmente deciso di scaricare il proprio giullare, e chissà che l’Europa non prenda esempio, per una volta positivamente.