Lo hanno chiamato The King, il Re del Rock. Lo hanno chiamato Elvis the Pelvis, a causa del suo sconvolgente ancheggiare, sebbene a lui non piacesse affatto tale appellativo. Ma basta semplicemente chiamarlo Elvis perché il mondo intero comprenda subito la portata rivoluzionaria di una delle maggiori leggende della storia della musica: Elvis Presley. È il solo nome che, infatti, dà il titolo al biopic in suo onore, da poco distribuito nei cinema ma pensato già nel 2014, e che porta la firma del regista australiano Baz Luhrmann. Elvis è stato presentato in anteprima mondiale fuori concorso al Festival di Cannes 2022, dove ha ricevuto una standing ovation di circa dieci minuti.
Dopo i successi di Bohemian Rapsody e Rocketman, ecco che va in scena la travagliata storia del ragazzo e dell’icona di Memphis, una star del rock che si è spenta davvero troppo presto, a soli 42 anni, e la cui morte resta ancora nebulosa. Forse la depressione, forse la fatica che il suo fisico non ha retto, forse l’abuso di pasticche che lo hanno trasformato nell’ultimo periodo di vita. Forse non lo sapremo mai. Ma una cosa è certa: Elvis incarna il sogno americano, quel successo che ti innalza fin sopra le stelle, nutrendo il mito e allo stesso tempo sgretolando l’uomo, pezzo dopo pezzo.
Luhrmann è ormai carta conosciuta e la maggioranza dei precedenti prodotti (Romeo + Giulietta di William Shakespeare, 1996; Moulin Rouge!, 2001; Il grande Gatsby, 2013) ci hanno dato prova del suo personalissimo stile registico patinato e sfavillante, spesso pomposo all’estremo. I suoi film sono impregnati di un’aura sognante, dai toni luminosi e una minuzia per costumi e scenografie. Altro tratto distintivo è l’uso frenetico della macchina da presa e del montaggio, con rapidi stacchi e movimenti di camera. I vari espedienti estetici permettono di raccontare brillantemente l’ascesa e il tracollo di Elvis e, in particolar modo, il rapporto complicato tra quest’ultimo e il suo noto manager, il Colonnello Tom Parker, nome d’arte di Andreas Cornelis van Kuijk.
Figura emblematica all’interno di una storia ormai popolare, Parker, impersonato da uno straordinario Tom Hanks, ha visto in quel talentuoso ragazzo una gallina dalle uova d’oro, lo ha manipolato, spremuto, ingannato, derubato per sanare i debiti, gli ha tarpato le ali nel suo desiderio di girare il mondo. Tutto pur di preservare il proprio passato che resta ancora per vari aspetti avvolto nel mistero. Eppure è proprio dal punto di vista del Colonnello che noi spettatori vediamo raccontata la storia, con la sua voce fuori campo che annuncia di essere stato accusato di qualsiasi cosa, persino della sua morte. E che, dopotutto, è a lui che si deve la creazione di una leggenda.
A vestire i panni di Elvis è il trentenne Austin Butler, una rivelazione senza dubbio. Aveva recitato in qualche serie tv e interpretato un hippie in C’era una volta a Hollywood di Tarantino. Adesso, il grande pubblico ha modo di conoscerlo in tutta la sua bravura poiché Butler ha sorpreso per le doti recitative ma soprattutto canore. Non solo nella somiglianza fisica o in quel modo di parlare strascicato – in originale così come nell’ottimo doppiaggio di Maurizio Merluzzo – tipico di Elvis. Piuttosto, vi sfidiamo a trovare le differenze nei momenti in cui si alterna sullo schermo la performance musicale dell’attore e quella del vero artista. Nell’attesa di vedere Butler in Dune parte 2, non possiamo far altro che essere d’accordo con Lisa Marie, figlia di Elvis e Priscilla Presley, la quale ha lodato l’attore definendo la sua interpretazione senza precedenti e FINALMENTE eseguita in modo accurato e rispettoso.
Se da un lato c’è la rivelazione, dall’altro c’è la garanzia. Il Colonnello Parker è un uomo sfaccettato e contraddittorio, interpretato egregiamente da un più che in forma Tom Hanks. Il trucco prostetico (l’uso di protesi scolpite), per alcuni troppo evidente, contribuisce invece a caratterizzarne il personaggio. Elvis mostra il ritratto di un artista quasi divinizzato, che dietro quella maschera di perfezione cela le fragilità di un uomo, tormentato, condannato a una vita di lustrini e solitudine. Outsider rispetto al pensiero comune dell’epoca, tanto che lo definiscono all’inizio il tizio vestito di rosa e truccato come una ragazza, non ha mai avuto problemi a esporre una moda piuttosto stravagante per un uomo dei suoi anni. A sfidare la censura e il bigottismo, ancheggiando sul palco come nessun artista prima. Un ragazzo che ha compreso il potere della musica nera, di cui resterà per sempre un accanito sostenitore, recandosi ai club per suonare e cantare il blues. Che non ha paura di condannare il razzismo e le violenze, anche tramite le sue canzoni.
E l’indagine va oltre, scava nel profondo fino a mettere a nudo un uomo spaventato e chiuso nella sua splendida gabbia dorata, troppo ingenuo per accorgersi che, come lo avverte B.B. King, se non controlli gli affari, gli affari controlleranno te. Interessante il suo rapporto con la madre, la quale ci ha visto lungo sul Colonnello, e l’inevitabile declino tra pillole, depressione e instancabili tour. Dopotutto, desiderava solo essere amato. Emblematica la frase di sua moglie Priscilla, interpretata da Olivia DeJonge, che non ricorda neppure più l’ultima volta in cui hanno cenato insieme, come una famiglia.
Nel cast vanno omaggiati anche Helen Thomson e Richard Roxburgh nel ruolo dei genitori, Kelvin Harrison Jr. come B.B. King, Kodi Smit-McPhee (direttamente da Il potere del cane) nel ruolo del cantante Jimmie Rodgers e, a sorpresa, Dacre Montgomery, noto ai più come Billy di Stranger Things.
Una pellicola che, tuttavia, non è esente da difetti. In primis lo stile lezioso e appariscente di Luhrmann (qui anche un po’ edulcorato, a dire il vero), che non è un difetto ma che spesso o si ama o si odia. Il film pecca di una prima parte molto rapida e dinamica e una seconda più calante, il che fa prendere coscienza delle 2 ore e 40 di durata. Durante il tracollo di Elvis, alcuni momenti sono eccessivamente lenti, per poi tornare a farci godere con le performance musicali, tra cui quella all’International Hotel di Las Vegas. Avremmo infine gradito, forse, un maggior approfondimento sulla relazione tra Elvis e Priscilla.
Elvis è un piacere per gli occhi ma, come si può immaginare, anche e soprattutto per le orecchie. La musica la fa da padrona, attraverso i brani più celebri del cantante come Are You Lonesome Tonight, Blue Suede Shoes, Can’t Help Falling in Love, Viva Las Vegas, Jailhouse Rock, In the Ghetto e molti altri. Sono presenti anche musiche contemporanee e cover di artisti vari. Impossibile non citare ad esempio la versione dei Måneskin di If I Can Dream. Tipico di Luhrmann è infatti l’uso della musica per creare un effetto straniante, rendendo contemporanea un’opera invece classica. Questo, però, è un biopic e l’espediente è ridimensionato in favore di una maggiore precisione e una commistione di musica diegetica ed extradiegetica.
Per i fan di Elvis e della musica in generale, per chi vuole saperne di più della sua travagliata storia, questa pellicola merita la visione anche come omaggio a un artista leggendario, un titano del rock e non solo, dal record di vendita di oltre un miliardo di dischi in tutto il mondo. Ah, chiaramente la visione è consigliata su grande schermo.