Giornalismo dal Sesto Quaderno
La concezione del giornale di Stato è logicamente legata alle strutture governative illiberali (cioè a quelle in cui la società civile si confonde con la società politica) siano esse dispotiche o democratiche (ossia in quelle in cui la minoranza oligarchica pretende di essere tutta la società, o quelle in cui il popolo indistinto pretende e crede di essere veramente lo Stato). Se la scuola è di Stato, perché non sarà di Stato anche il giornalismo, che è la scuola degli adulti?
Definizione fulminante per incisività e sintesi di Gramsci rispetto all’appetito compulsivo della politica nei confronti dell’informazione. Napoleone III già aveva intuito questa funzione repressiva e di indirizzo degli organi di stampa e, infatti, voleva un giornale di Stato. L’intento di controllo delle coscienze e dei saperi viene però camuffato da sempre con un intento educativo: argomento democratico che si trasforma in giustificazione dell’attività oligarchica.
Nei meccanismi post economici del mondo contemporaneo, ossia nella mancanza di monetarizzazione immediata di attività professionali in termini puramente economici, ma nella loro ambigua funzione di volano di visibilità, centralità sociale e rete di rapporti personali che nulla hanno a che fare con un compenso diretto, spicca il cupo giornalismo liquido dei migliori. Basti pensare che molti tra i più illustri opinionisti appartengono a tre categorie: pensionati di altissimo livello che non percepiscono compenso per le loro esternazioni e che, anche percependolo, esternano sostanzialmente per altri motivi di carattere propagandistico; professionisti di settori nevralgici, ma non direttamente connessi al mondo dei media che traggono, dai loro articoli, visibilità e consenso; burocrati, ossia dipendenti statali a vario titolo, che cercano un perenne palcoscenico per il proprio ego deforme. In quest’ottica è chiaro che ogni opinione va letta in chiave di appartenenza a un determinato salotto di potere. Un conflitto di interessi che non è soltanto apicale, ma che è intimo, lacerante in ciascuno di noi.
Gramsci già aveva individuato queste pericolosissime sovrapposizioni nelle quali spesso, dietro a un nobile proposito, si nasconde un buio interesse personale. È una spirale dove si conquista visibilità attraverso il servilismo al potere e la si rivende, a caro prezzo, allo stesso potere che si è servito. Del resto, questo mix torbido di relazioni determina per i “pennivennoli” la stessa sopravvivenza emotiva, oltre che economica, creando delle vere e proprie affiliazioni di stampo massonico.
L’apparente democraticità dei social non sfugge a queste dinamiche, anzi ne è spesso cassa di risonanza ancora maggiore, dove l’alchimia dei misteriosi algoritmi crea un cortocircuito in cui ogni reale reciprocità democratica viene cancellata da un potere a noi oscuro. La perversa incisività della televisione, del resto, è la sintesi forse più chiara di una verticalità assoluta tra il cittadino/consumatore e un invisibile cervello grigio che crea agende politiche, sapientoni, emergenze, carriere, argomenti di pubblico interesse. Chi decide tutto questo?
L’argomento però non è senza pregio: esso può essere democratico solo nelle società in cui l’unità storica di società civile e società politica è intesa dialetticamente (nella dialettica reale e non solo concettuale) e lo Stato è concepito come superabile dalla società regolata: in questa società il partito dominante non si confonde organicamente con il governo, ma è strumento per il passaggio dalla società civile-politica alla società regolata, in quanto assorbe in sé ambedue, per superarle (non per perpetuare la contraddizione).
Citazione un po’ complessa ma che, in fondo, ci spinge a una riflessione molto semplice. L’indipendenza di ogni individuo, anche di quello appartenente alla “società civile”, è data dalla dignità, dalla non ricattabilità, dall’assenza di interessi nascosti. In sintesi: un giornalista è autonomo solo quando non risponde agli interessi politici o economici del suo datore di lavoro o del suo salotto di riferimento. Il clima di precarietà in cui versa questa nobile professione, invece, è strumentale al controllo maniacale della medesima. Ci sono, per fortuna, tante eccezioni, ma sono eccezioni e in quanto tali creano solo piccoli pruriti al potere. Per il resto, si è come quei cani pastori, che conducono il gregge al macello.
Gramsci torna spesso alla fragilità dell’intellettuale nelle dinamiche della società e, nel caso di colui che scrive, queste fragilità si amplificano nel mix sporco e di stampo feudale delle aristocrazie intellettuali nostrane. Anche non conoscendo, perché ancora non avvenuta, la trasformazione del Terzo Settore e degli eserciti della bontà, da società civile (per eccellenza) in vassalli del potere di turno, dove ogni progettino o carriera va finanziata e approvata con assoluta arbitrarietà, dal potere clerico-rosé in sella. Gramsci già ascrive a questa mancanza di indipendenza, quasi di ossigeno vitale, una forma estremistica di controllo delle voci della società civile, che così diventa serva di quella politica. In gioco ci sta la stessa esistenza in vita di chi, invece, dovrebbe dare voce e corpo alle dinamiche malate della società.
Contributo a cura di Luca Musella