Pochi giorni fa, il Garante nazionale delle persone private della libertà personale Mauro Palma ha presentato, come di consueto, la sua Relazione annuale al Parlamento, con il fine di soffermarsi sia sugli elementi positivi che sulle persistenti criticità dell’intera area di privazione della libertà personale. Non si parla quindi del solo carcere e dei soli detenuti in senso stretto, ma di tutti coloro che per qualunque ragione si trovano a essere privati di quel diritto fondamentale che la nostra Costituzione, all’articolo 13, definisce inviolabile e la cui compressione dovrebbe, almeno in teoria, essere solo un’eccezione. Si tratta, ad esempio, anche delle residenze psichiatriche o dei centri di rimpatrio per migranti che si trovano irregolarmente sul suolo italiano. A ben pensarci, tutti questi luoghi sono probabilmente accomunati dalla condizione di vulnerabilità e di marginalità delle persone che li abitano e dalla caratterizzazione di essere dei non luoghi, degli spazi in cui tutto sembra essere sospeso: tempo, regole, vita.
Il principio fondamentale da cui si parte è la necessità che l’individuo privato della libertà personale mantenga integra la sua dignità e che soprattutto non subisca alcun pregiudizio ulteriore se non quello – già di per sé oneroso – derivante dalla privazione della libertà. Eppure sappiamo bene che così non è nella maggior parte dei casi e che quello trascorso in un luogo di detenzione è spesso tempo vuoto, non orientato a quel fine che invece ha consentito e giustificato la detenzione stessa.
La relazione annuale non è quindi solo un’occasione in cui esporre i risultati emersi in un anno di analisi e ricerca sul campo, quanto il tentativo di riflettere insieme sul senso più profondo della pena e parallelamente della libertà, in un momento, come questo, in cui il Parlamento sarà chiamato a pronunciarsi – si spera in maniera adeguata – su temi fondamentali in ambito penale, come l’ergastolo ostativo.
Un’attenzione particolare viene rivolta al mondo minorile: nonostante in Italia si registri un approccio positivo che, conformemente a Costituzione, vede la privazione della libertà come extrema ratio – e che forse dovrebbe essere attuato anche per il mondo penale adulto – non sono pochi gli elementi di preoccupazione, tra cui l’aumento dei reati di gruppo e il conseguente ricorso al carcere minorile, che però a mano a mano che si affolla diventa molto più simile a quello dei grandi e quindi del tutto inadeguato. Le alternative ci sono, eppure si decide continuamente di far scontare anche pene brevissime in carceri fatiscenti, sovraffollate e che nulla hanno da offrire ai fini di un percorso di reinserimento.
A tal proposito, quella (ri)apertura verso il mondo esterno che lo stesso Garante nazionale auspicava oramai un anno fa non si è probabilmente avverata e, anzi, la logica segregante sembra prevalere sempre di più. A ciò si aggiunga che la pandemia e il successivo conflitto bellico che ha scosso l’intera Europa ci hanno abituato sempre di più a un linguaggio di scontro e violenza, acuendo le già persistenti sensazioni di inimicizia che accompagnano questi luoghi.
Il costante ricorso ad ambienti segreganti e di chiusura ci dimostra la mancanza di una rete sociale di supporto che operi sul territorio e intervenga prima dello strumento penale, anziché scaricare all’interno di luoghi come gli istituti di pena tutte le contraddizioni sociali che lì finiscono per esplodere, vanificando la promessa risocializzante del costituente che non è possibile attuare senza la preventiva fase di intercettazione dei bisogni e reale presa in carico del soggetto. Una dimostrazione – come sottolineato da Mauro Palma nel suo discorso – ci è fornita dall’aumento dei cosiddetti eventi critici, ossia atti di autolesionismo e suicidi nei luoghi di reclusione, dati che sono indice dell’urgenza con cui è necessario intervenire, in particolare nei confronti di chi è portatore di disagio psichico. Si registra quindi un’inaccettabile mancanza di supporto psicologico e psichiatrico nei luoghi di reclusione a cui non si può rispondere con le sole Rems, rischiando di farle divenire i nuovi manicomi.
Così come per la detenzione, gli interventi che riguardano la condizione dei migranti irregolari sono assolutamente emergenziali e mai frutto di una politica strutturale sul tema. Basti pensare alla sproporzione tra le spese previste in Italia per le politiche d’accoglienza e inserimento sociale e quelle finalizzate ai rimpatri. L’accoglienza non può però essere mero soccorso.
La privazione della libertà, qualunque sia il suo fine, raramente rappresenta un evento congiunturale e non può quindi essere trattata come tale. Il carcere, d’altro canto, rappresenta ancora – nelle parole del Garante nazionale – il tempo delle attese, senza alcun fine né senso. Probabilmente la riflessione comune verso cui bisogna tendere è tutta contenuta nel monito la pena detentiva ha oggi bisogno di ritrovare serenità, oltre che di essere ricondotta a misura estrema. Una riflessione che però sembra ancora essere lontana dalla mentalità comune e, ancor di più, dalle intenzioni del Parlamento.