Mi capita spesso, ultimamente, di soffermarmi a pensare al rapporto che abbiamo con il corpo. Con il nostro, con quello degli altri, con quello che mostriamo e che celiamo. Con quello che passiamo in rassegna avidi e quello che non riusciamo a vedere. Il corpo ideale è la spada di Damocle che gravita sopra le nostre teste ogni estate, con l’avvicinarsi di quella che qualcuno ormai tempo fa ha diabolicamente definito la prova costume. Il corpo ideale non ha imperfezioni, malfunzionamenti e (se per questo) neppure espleta funzioni biologiche normali come sudare, sanguinare, ferirsi. Il corpo ideale è una distesa di glabra, candida pelle liscia con depressioni e rigonfiamenti accettabili solamente dove l’occhio estetico egemone giudica opportuno.
Qualche giorno fa, ho presentato a Milano il saggio di Sabrina Strings Fat Phobia (che ho tradotto per Mar dei Sargassi Edizioni). Nel testo, l’acclamata sociologa americana analizza il fenomeno contemporaneo della grassofobia come retaggio culturale del colonialismo e del razzismo scientifico. Secondo la sua tesi, documentata facendo ampio ricorso a fonti storiche, epistolari, archivi giornalistici e opere d’arte, in Occidente (quell’agglomerato di Paesi compresi dal continente europeo e il Nord America) la repulsione per il grasso corporeo si instaura a partire dall’imposizione sistematica di una differenza biologica e morale fra popoli cosiddetti anglosassoni (dall’algida, slanciata e affilata costituzione) e i popoli del Sud del mondo (la cui incapacità di controllare i propri istinti si manifestava, appunto, nella presenza massiccia di adipe).
Il tema morale è poi rimasto saldamente ancorato al discorso sui corpi grassi al punto che la sua patologizzazione è sempre e comunque accompagnata da una buona dose di colpevolizzazione della persona grassa e dalla condanna generica del peso non conforme. L’esibizione e la ridicolizzazione di ciò che viene considerato grasso (si pensi, ad esempio, alla pubblica gogna cui vanno incontro ogni anno le donne dello spettacolo, quando l’obiettivo indiscreto della camera mostra un imperdonabile rotolino di ciccia che prima non era lì) agisce anche da monito per tutti gli altri, una forma subdola e collettiva di controllo.
In una discussione che il libro aveva scatenato su Facebook, si era arrivati a paragonare la condizione delle persone grasse a quella dei fumatori. È una connessione particolarmente interessante da analizzare per almeno due motivi: il primo è che, nei discorsi sul grasso, la mente ricorre innanzitutto all’idea del cibo, dell’incapacità di controllare l’istinto a mangiare; pensa immediatamente all’alimentazione smodata, a un vizio come quello del fumo. Fino a un certo punto, interamente dipendente dalla responsabilità del singolo individuo. Del resto, nel saggio, Strings nota come il giudizio morale sul corpo grasso scaturisse da un’applicazione materiale del principio della temperanza cristiana: la capacità di tenere a bada le proprie pulsioni. Se, però, il fumo resta nella sfera personale e privata del fumatore, è difficile che nella vita di una persona grassa o di un individuo che abbia messo su peso nessuno ficchi il naso.
Il controllo sul corpo grasso e sullo spazio che occupa viene esercitato singolarmente e collettivamente da ciascuno di noi prendendo a modello un canone che, più che inclusivo, tende a escludere la maggior parte dei corpi. È opportuno, dunque, interrogarsi sul canone di conformità, sui filtri, sui bias estetici talmente radicati da vivere e morire con noi, soprattutto quando si occupa una posizione di privilegio (nemmeno sempre coscientemente) che non esponga a discriminazioni dirette.
Di recente, l’interrogativo sullo spazio occupato dai corpi e sul nostro modo di percepirli è sempre più spesso materia di indagine letteraria. Nel nuovo romanzo di Valentina Farinaccio (Non è al momento raggiungibile, Mondadori), ad esempio, uno dei macrotemi è il rapporto di Vittoria, la protagonista, con il proprio corpo, con il grasso, con il cibo. Vittoria mangia per riempirsi. Vittoria mangia per punirsi. È ossessionata dal peso e l’ossessione rientra nel vasto insieme di possibilità rappresentate dal termine fobia. La sua immagine allo specchio la spaventa, la ripugna. Eppure è in qualche modo dipendente da quel dolore. Lo specchio in cui la protagonista scruta il suo riflesso non è quello di casa: è l’obiettivo della camera frontale dello smartphone. Inciampata per caso nella professione di food influencer, Vittoria si aggrappa, inizialmente, alla propria immagine social come all’unica ancora di salvezza: un compromesso che, seppur doloroso perché la costringe al confronto quotidiano con essa, le permette di prendere tempo, di dimostrare agli affetti (e in realtà a se stessa) che non ha fallito del tutto.
Entra, dunque, prepotentemente in gioco anche l’elemento della performatività dell’immagine che offriamo di noi sui social media. Ormai inscindibili, reale e virtuale non appartengono a categorie separate, ma sono due aspetti dal peso analogo sulla bilancia sociale. L’immagine perfezionata e ad alto funzionamento che diamo delle nostre vite online non è menzogna rispetto a quello che siamo lontano dagli schermi, è solo una versione riveduta, corretta, censurata. Una promessa di noi stessi. Un po’ come la pizza surgelata e i sughi pronti sono la promessa di un pasto che appaghi le papille gustative e il calore di un pasto domestico preparato da qualcuno che ci ama. Vittoria diventerà testimonial, a un certo punto, di questi surrogati del cibo di casa: un destino professionale tragicomico poiché riflette esattamente la farsa surrogata che la protagonista recita.
Nel riferirsi alla presenza online oggi, Valentina Farinaccio ha fatto cenno all’invidia di sé. La promessa che le nostre foto ammiccanti e promozionali offrono a un pubblico più o meno vasto online è vagliata dall’occhio giudicante e censore di una spietata giuria: noi stessi. L’immagine filtrata, opportunamente illuminata, adeguatamente photoshoppata, fotografata dalla giusta angolazione e per un significativo numero di tentavi, è nostra rivale. Noi la guardiamo e lei ci guarda, e ci facciamo pena e anche un po’ schifo perché sappiamo di non essere veramente come in quella foto.
Uno dei trend più in voga fra le ragazze su Instagram e TikTok in questo momento è quello di mostrare il corpo prima in posa per la foto e poi a riposo. Pance piattissime, sederi alti e sodi, cosce da amazzone, seni che puntano verso le stelle cedono di colpo alla gravità dopo lo scatto, rivelando pelle cascante, inestetismi, qualche pelo, grasso addominale. Nonostante i parecchi difetti che presenta l’iniziativa (primo fra tutti, quello che a essere rappresentato è spesso sempre la stessa tipologia di corpo che non può definirsi mai né grasso né non conforme), fa riflettere il fatto che l’autorappresentazione sia divenuta, in questo senso, una nuova forma di costrizione del corpo. Al canone magro si sovrappone il canone algoritmico. Ci confrontiamo costantemente con entrambi, costantemente ne usciamo sconfitti.
La percezione che Vittoria ha di sé è inaffidabile, il lettore se ne renderà presto conto. È il risultato della stratificazione di assenze, vuoti, mancanze. Si affida alle esperienze dolorose fino a sprofondare nel disprezzo della propria persona, un disprezzo di cui vuole trovare conferma offline e online. Così, il commento di un follower sul suo aspetto si trasforma nel commento di un hater che porterà la protagonista sull’orlo del baratro.
La riflessione che Non è al momento raggiungibile induce a fare, dunque, è anche sulla funzione sociale di controllo che le parole altrui esercitano sui nostri corpi, sul nostro modo di essere. Siamo sottoposti continuamente allo scrutinio degli altri, a quello di noi stessi, a quello “meccanico” di un algoritmo che decide se la nostra immagine “funziona” abbastanza su internet.
La visibilità dei corpi passa dal filtro del controllo, della regolamentazione escludente. Assistiamo in questi giorni alla mossa politica di ribaltare la storica sentenza Roe v. Wade, che aveva sancito il diritto all’aborto negli Stati Uniti. La sottrazione di questo diritto, più che una vittoria pro-vita, rimette in discussione i diritti delle donne come categoria. I nostri corpi sono al centro del dibattito, al centro di filosofiche discussioni che, però, determinano l’accesso di milioni di persone alla salute riproduttiva. Possono sembrare questioni slegate ma, a parer mio, non lo sono. Anche se i media sono saturi di immagini di donna, la pluralità dei corpi femminili viene, di fatto, negata e frammentata competitivamente nello spazio estetico, sociale, politico e clinico. Tutto ciò che non si conforma affronta un processo di mostrificazione, viene odiato, ridicolizzato, perseguito penalmente.
Alla base di un’esplorazione contemporanea del corpo in letteratura, come parte di noi e come strumento attraverso il quale veniamo comprese o escluse dai discorsi, si avverte, forse, anche la necessità di capire, di scuotere l’idea di canone a partire dalla percezione individuale che abbiamo di noi stessi. Le istituzioni e i media ci sottopongono a una forma di controllo politico-clinico. Il corpo femminile è anzitutto e ancora il luogo dove avviene la determinazione di qualcun altro. Quando è grasso, è patologicamente brutto: ostacola il desiderio maschile. Quando è gravido, la salute del feto ha assoluta priorità su quella della donna. Non è un caso, tornando a Sabrina Strings, che la costruzione di un canone magro sia stata funzionale alla creazione di un’identità nazionale biologica che alle donne spettava, poi, riprodurre mettendo al mondo nuovi americani anglosassoni magri puri.
La letteratura offre lo spiraglio e l’opportunità di sottrarsi al controllo con la consapevolezza. Che si tratti di saggistica o narrativa, il tema del rapporto con il corpo innesca una resistenza discorsiva che ci permette di occupare spazio, espanderci, resistere, comprenderci, accettarci. Forse è per questo che anche il romanzo di Valentina Farinaccio, in cui la dimensione corporea è così centrale, si apre al finale con una nota di speranza che riparte dall’amore ancestrale per le parole, per l’arte (in questo caso, la musica). E così voglio concludere anch’io questo pezzo. Con la speranza.