Sono nove le persone che hanno il potere di decidere del destino di 170 milioni di donne. Sei voti a favore, tre voti contrari, ed ecco che il diritto all’aborto sparisce dalla Costituzione statunitense. Venerdì 24 giugno, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha ribaltato la famosa sentenza Roe vs Wade con cui, nel 1973, la stessa Corte aveva legalizzato l’interruzione volontaria di gravidanza, rendendola un diritto garantito a livello federale. Adesso, saranno i singoli stati a decretare se l’IVG possa essere praticata o meno sul proprio territorio, cancellando di fatto la tutela di quel diritto ancora tanto discusso e di già così difficile accesso.
Sono nove i membri della Corte crudele, che ha tra le dita di poche avide mani il destino di tutte le donne d’America, di quel Paese che si crede baluardo di democrazia e che si dimostra divoratore di diritti. Nove giudici, eredi dell’amministrazione Trump, che aveva giurato di piazzare in quel gruppo abbastanza antiabortisti da sovvertire la storica sentenza, e mai promessa fu tanto mantenuta. L’aveva già preannunciato Politico all’inizio di maggio, con una bozza trapelata sui pronostici della votazione, ma a sentire una notizia del genere non si può essere preparati.
Sono nove le persone demandate di limitare la libertà delle donne, in realtà emissari di una società intera, non tanto repubblicana quanto arretrata, ancora schiava dei dettami di un regime mondiale che non riconosce diritti alla donna né la proprietà del corpo che abita. Dopo anni a discutere le leggi statali, dopo anni a combattere decisioni incostituzionali, di incostituzionale non ci sarà più niente e ogni stato potrà scegliere, in base al colore del proprio elettorato, la sorte delle donne che si ritrovano a viverci.
Secondo le stime del New York Times, saranno circa la metà – probabilmente ventisei – gli stati a rendere impossibile l’accesso all’aborto, rimodellando l’assetto politico della nazione e conducendo al divieto dell’IVG in diverse e numerose situazioni. Se con la Roe vs Wade, infatti, si stabiliva l’impossibilità di negare l’aborto prima delle ventotto – poi divenute ventitré – settimane, ovvero all’interno dell’arco di tempo in cui il feto non potrebbe essere autonomo e sopravvivere al di fuori dell’utero. Tante leggi statali erano state messe in discussione e annullate per incostituzionalità allora, e tante altre torneranno adesso, rendendo la libertà di scelta delle donne americane molto più rara.
La negazione di un diritto, però, non è mai totale. È anzi, spesso, parziale, come è parziale anche la sua garanzia. Come accade sempre quando si parla di diritti delle donne, saranno le classi sociali privilegiate ad avere ancora accesso all’aborto, ovvero le persone che possono permettersi di viaggiare verso uno Stato non antiabortista o per cui non comporta problemi personali o professionali allontanarsi da casa per molti giorni per usufruire di un diritto che altrove esiste ancora. Per tutte le altre, invece, non è tanto il diritto all’aborto a perire, quanto il diritto all’aborto sicuro. È ormai dimostrato, infatti, che, nei i luoghi e nei tempi in cui l’interruzione volontaria di gravidanza è illegale, essa non sparisce, ma ne è favorita la pratica clandestina con strumenti e procedure rudimentali e insicure, con un rischio di morte tra il 4 e il 13%. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che dei quarantaquattro milioni di aborti indotti nel mondo ogni anno, solo poco più della metà è eseguito in modo sicuro, causando la morte, ogni anno, di 47mila donne.
Sarebbe sbagliato però interpretare la novità americana come la semplice negazione di un diritto, ignorando l’aspetto che riguarda la violenza istituzionale: quella che impone alle donne la genitorialità, e che ne nega la libertà del proprio corpo, viola inevitabilmente l’autodeterminazione, relegando la popolazione femminile unicamente alla funzione procreativa. Una donna non può decidere di non procreare, non può scegliere per il proprio corpo così come per la propria vita poiché è nella maternità che si esaurisce la sua funzione sociale.
Questa tendenza non è, certamente, tutta americana e anzi in tutto il mondo si registra un progressivo e incalzante irrigidimento delle politiche antiabortiste. E anche nei luoghi in cui la legge teoricamente garantisce il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza, nella pratica esso non sempre è garantito. Basti pensare al larghissimo ricorso all’obiezione di coscienza, che permette di non garantire l’aborto in molte regioni italiane, all’interno delle quali non ci sono ospedali con medici non obiettori. La stessa che non assicura, alla presenza di un ginecologo non obiettore, la presenza di un anestesista non obiettore, o di un’ostetrica, rendendo l’accesso all’IVG molto più complicato di quanto si possa pensare.
Restituire – come sostiene la Corte – agli stati la possibilità di affidare ai rappresentanti scelti dal popolo la decisione se garantire o meno quello che dovrebbe essere un diritto non è certamente espressione della democrazia, quanto invece espressione di tirannia. Fa sorridere amaramente pensare che, solo il giorno prima della sentenza, la Corte Suprema aveva sancito il diritto al porto d’armi, affermando che gli stati non dovrebbero avere il potere di decidere riguardo la libertà degli individui. Libertà che non riguarda i corpi delle donne, evidentemente.
Secondo Human Right Watch, l’accesso all’aborto è fondamentale per garantire i diritti umani, a partire dal diritto alla vita e alla sicurezza, dalla privacy alla non discriminazione, fino ad arrivare alla libertà da trattamenti crudeli e degradanti. Su questo punto c’è forse da insistere particolarmente perché i trattamenti crudeli e degradanti possono essere le pratiche abortive clandestine, di per sé dolorose e pericolose, ma non solo. Anche la gravidanza stessa, quando non desiderata, quando imposta e obbligata, non può che apparire come una tortura per un corpo che non l’accoglie né la desidera.
Se gli Stati Uniti vengono meno ai trattati internazionali che hanno firmato e che riconoscono i diritti sopracitati, se tanti Paesi fanno passi indietro sull’diritto all’aborto, e se anche l’Italia trova scorciatoie per negare i diritti alle donne, quello che resta è un mondo in cui la violenza di genere, in ognuna delle sue forme, non sparirà mai. La negazione dell’aborto, infatti, non è solo una violazione dei diritti umani, ma una vera e propria forma di violenza di genere, una delle sue espressioni più crudeli e rappresentative: la coercizione riproduttiva. Le donne non possono scegliere di non diventare madri, non possono rifuggire la schiavitù del loro corpo. La loro libertà di scelta non è un diritto umano fondamentale e garantito dalla Costituzione, ma una mera questione amministrativa di cui possono discutere gli stati.
Ma se alla tendenza mondiale verso spinte regressiste quasi ci stiamo spaventosamente abituando, è della modalità con cui avviene che dovremmo preoccuparci: quel superato escamotage che giustifica leggi antidemocratiche, che violano i diritti umani, con la morale. Lo Stato impone la legge, non l’etica. Eppure, e non solo negli Stati Uniti, accade spesso che si legiferi su questioni di carattere morale, che non hanno un’effettiva validità pratica ma servono solo a imporre un certa visione del mondo. Rendere illegale il consumo di droghe o la prostituzione, per esempio, non agisce da deterrente, ma favorisce semplicemente il mercato nero. Allo stesso modo, negare l’aborto non lo fa sparire, lo rende solo pericoloso, uccidendo le donne che vi ricorrono.
Dovremmo, però, forse chiederci perché la questione intorno all’aborto sia tanto sentita, tanto discussa e tanto ostacolata. Perché la scelta dei giudici della Corte Suprema si fonda intorno alle loro posizioni sull’interruzione volontaria di gravidanza, perché gli antiabortisti, che sono una minoranza, riescano a influenzare l’intero partito repubblicano. Perché, insomma, l’aborto sia tanto importante. E no, la morale non c’entra niente. C’entra il potere che le donne possono avere, sui propri corpi e sulla società, sulla sopravvivenza della specie e sul sistema patriarcale, fondamentalmente basato non sulla discriminazione, non sulla violenza, non sull’inferiorità, quanto sulla maternità. È la maternità a impedire alle donne di realizzarsi professionalmente, garantendo agli uomini il virile primato di chi porta i soldi a casa. È il rischio della maternità a rendere le donne sessualmente non libere, e dunque incapaci di emanciparsi. Ed è per questo che l’aborto va eliminato. Per assicurarsi che esse restino mansuete, angeliche e immobili.
Eppure, con buona pace degli antiabortisti accaniti, l’interruzione volontaria di gravidanza non smetterà di esistere. L’aborto è sempre esistito, dall’alba dei tempi. Le donne lo hanno sempre praticato, si sono sempre ribellate a quella coercizione riproduttiva che veniva loro imposta, mettendo a repentaglio la propria salute e la propria vita pur di sfuggire alle leggi del sistema. Lo facevano prima che la scienza medica lo rendesse sicuro, l’hanno fatto quando le leggi lo negavano, e continuano a farlo ora, che i diritti umani esistono ma pochi li rispettano. E lo faranno al caro prezzo della propria vita e della propria salute, mentre il sistema americano si rivela incapace di garantire, tra i tanti, il famoso e discusso diritto alla vita. Delle donne però.