Ma questa storia del doppio cognome è davvero necessaria? Già le sento le blande proteste del dopotutto si è sempre fatto così, le poco convinte opposizioni che vendono nel – seppur terribilmente in ritardo – progresso l’ombra di un cataclisma, di una maledizione che si abbatte sulle tradizioni, che infrange la famiglia, che distrugge e rimescola e confonde il ruolo dei genitori. Che, insomma, genera quei dove finiremo? lunghi chilometri e quei ai miei tempi era più facile fatti un po’ di ignoranza e un po’ di gusto nel lasciare le cose disfunzionali e immobili.
Rispondiamo subito alla domanda, prima che qualche dubbio sulla necessità di questa sentenza si affacci alla porta: sì, questa storia del doppio cognome era proprio necessaria, ed è pure tanto in ritardo rispetto a quando la necessità si è effettivamente presentata, non di certo solo un mese fa. È necessaria per motivi diversi, che vanno dal valore simbolico dell’attribuzione automatica del cognome paterno ai figli, che si traduce in un atteggiamento culturale terribilmente iniquo, fino alle difficoltà pratiche delle famiglie che ogni giorno hanno dovuto combattere con un sistema che impediva loro di fare cose semplicissime eppure naturali, come decidere il nome dei propri figli.
È proprio l’aspetto pratico della questione ad aver smosso l’interesse della Corte Costituzionale, che a partire dalla difficoltà di una famiglia ha riconosciuto l’incostituzionalità di una norma che, se viviamo in un Paese che riconosce l’uguaglianza – tra coniugi, tra genitori e, ovviamente, tra uomini e donne – non ha motivo di esistere. Il caso che ha portato alla sentenza riguarda una coppia di genitori con due figli avuti prima del matrimonio. Fino a ieri, la legge italiana consentiva di attribuire il solo cognome materno unicamente ai figli di coppie non sposate, o in caso di mancato riconoscimento della patria potestà da parte del padre. Ai figli di genitori sposati, invece, l’accesso al solo cognome materno era impedito, come a volerne dichiarare l’evidente proprietà. Ma di questo parleremo più avanti.
La coppia in questione, con due figli nati prima del matrimonio a cui era stato dato il cognome materno, a un certo punto della vita familiare si sposa e poi ha un terzo figlio. Come di consueto, al nuovo nascituro viene attribuito in automatico il cognome paterno. La coppia, però, per non lasciare che il terzo figlio abbia un cognome diverso da quello dei suoi fratelli, richiede al Comune la possibilità di attribuirgli il cognome della madre. Impossibile, però, all’interno del matrimonio. Rimbalzati di tribunale in tribunale, un no dopo l’altro, il caso arriva finalmente di fronte alla Corte Costituzionale, che stabilisce l’incostituzionalità dell’attribuzione automatica del cognome paterno ai figli nati all’interno del matrimonio. Stabilisce, inoltre, che d’ora in poi ai nuovi nati e ai figli adottati sarà affidato automaticamente il cognome di ambedue i genitori, salvo richiesta specifica di entrambi di attribuire solo uno dei due – qualunque dei due. Oggi se ne torna a parlare perché in seguito alla sentenza del 27 aprile, la settimana scorsa la norma è entrata ufficialmente in vigore, dopo la pubblicazione delle motivazioni che hanno portato alla decisione.
La sentenza non ha solo risolto il problema della famiglia in questione, molto simile purtroppo ai problemi che tante altre coppie hanno avuto, ma ha sottolineato l’assoluta iniquità della norma finora esistita. La sentenza ha infatti stabilito che l’attribuzione automatica del cognome paterno si traduce nell’invisibilità della madre ed è sintomo di una diseguaglianza tra i genitori che si imprime sull’identità del figlio.
Quello che sul piano formale sembra una questione simbolica nella realtà della vita quotidiana si traduce sempre, senza possibilità di scampo, in diseguaglianze sistemiche. Ne avevamo già parlato nel caso dell’attribuzione del cognome del marito a tutte le donne sposate, una convenzione che appare invisibile e superata nella quotidianità ma che, sotterrata nei meandri della burocrazia, persiste, attribuendo alle donne dei doveri coniugali diversi da quelli dei loro mariti, come a confermare un’evidente differenza tra i ruoli di uomini e donne, sia all’interno della società che all’interno della famiglia.
Ciò che i nostri ordinamenti, le convenzioni sociali e i sostenitori accaniti delle tradizioni non sembrano capire è che l’evoluzione dell’essere umano e quindi il cambiamento, anche di questi tratti millenari, è naturale. Chi ne parla come il sintomo di una società artificiosa non si rende conto che è proprio l’artificio a distinguere l’uomo – e la donna – dagli altri animali. Antropologicamente parlando, l’attribuzione della paternità – riassumibile nell’attribuzione del cognome – aveva senso quando l’essere umano era ancora simile, nel suo vissuto, agli animali. Se la maternità era riconosciuta e inequivocabile, perché ogni bambino proviene fisicamente dalla madre, per i padri il riconoscimento della genitorialità era più difficile. Dunque, mentre alla madre era concessa un’attribuzione di sangue, corporale, al padre non restava che la convenzione del nome, del figlio di.
Con l’introduzione del patriarcato, però, questo fenomeno è involuto in una cancellazione dell’importanza della madre nella vita del figlio. Le donne, già relegate esclusivamente al ruolo di mamme, non solo non avevano il potere di contribuire alla costruzione dell’identità dei propri figli attraverso l’ereditarietà del cognome, ma neanche di prendere decisioni sulla loro crescita, sulla loro educazione. Insomma, alle donne non restava mai niente. È per questo che la sentenza sul doppio cognome ha segnato in qualche modo una svolta, perché ha riconosciuto l’iniquità di quelle convenzioni che diamo troppo per scontate e della cui validità non ci interroghiamo mai. Perché fanno parte della nostra quotidianità, perché si è sempre fatto così, e ce lo facciamo andare bene. Anche quando bene non va affatto.
Intorno alla nuova norma, che finalmente prova a cambiare le cose, è però necessario costruire una legge che ne regoli il funzionamento. La sentenza ha infatti chiarito l’incostituzionalità della vecchia norma e ne ha imposto una modifica, ma non ne regola l’effettivo funzionamento. È ora necessaria una legge che si occupi di risolvere i dubbi sorti intorno alla modifica, motivo per cui la Corte Costituzionale ha rimandato la questione del doppio cognome al Parlamento.
Innanzitutto, è necessario stabilire in che modo saranno attribuiti i cognomi nel momento in cui anche i genitori sono già in possesso di due cognomi. Quando i bambini nati da ora in poi e dunque in possesso di due cognomi avranno dei figli, sarà necessario evitare che i cognomi diventino quattro, e poi otto e così via, trovando un modo per regolare la scelta. Inoltre, e tale questione è sicuramente più vicina nel tempo della prima, va capito come gestire i cognomi di bambini che nascono d’ora in poi e non sono primogeniti: se ai bambini che nascono oggi verrà attribuito il doppio cognome in automatico, essi avranno un cognome diverso da quello dei loro fratelli e sorelle maggiori.
Mentre al Parlamento, dunque, è lasciato parecchio lavoro da fare, noi dovremmo interrogarci sul motivo per cui queste leggi, queste svolte epocali, provengono sempre in qualche modo dai tribunali, e non hanno quasi mai iniziativa politica. È consuetudine, infatti, che siano la Corte Costituzionale o i tribunali a sollevare questioni importanti, a portare all’attenzione pubblica tutti i malfunzionamenti del nostro sistema, solo perché spesso si traducono in impedimenti pratici per le persone nella loro vita di tutti i giorni. È invece raro che tali questioni trovino spazio nei luoghi preposti al confezionamento delle leggi, dove lo scarso interesse non solo conferma una lontananza delle scelte politiche dalla quotidianità dei cittadini, ma anche e soprattutto la loro distanza dai temi dell’uguaglianza, dell’equità e della giustizia sociale.