Con l’approssimarsi del 12 giugno, che vedrà ben 978 Comuni coinvolti nelle elezioni amministrative, oltre che nelle consultazioni sui cinque quesiti referendari presentati da Lega e Radicali, vale la pena provare a ragionare sul diritto di voto – grande conquista democratica – e in particolare sul diritto di voto delle persone condannate e in carcere.
Innanzitutto, l’articolo 21 della Dichiarazione universale dei diritti umani sancisce il diritto di ogni individuo di partecipare al governo del proprio Paese, sia direttamente sia attraverso rappresentanti liberamente scelti. Aggiunge poi che la volontà popolare è il fondamento dell’autorità di governo e che tale volontà dev’essere espressa attraverso periodiche e veritiere elezioni, effettuate a suffragio universale ed eguale, ed a voto segreto, o secondo una procedura equivalente di libera votazione.
In più di un’occasione Corti nazionali e sovranazionali hanno affermato l’indissolubile legame tra diritto di voto e dignità umana, come diritto da attribuire a qualsiasi uomo in quanto tale. Il nostro ordinamento, all’articolo 48 della Costituzione, accoglie il carattere di universalità del voto, collegandolo al solo raggiungimento della maggiore età, definendolo inoltre personale, uguale, libero e segreto e il suo esercizio un dovere civico. Tuttavia sono innumerevoli le ipotesi in cui i soggetti perdono il proprio diritto di scelta: l’interdizione dai pubblici uffici e, quindi, dall’elettorato attivo può essere perpetua o temporanea.
Nel primo caso è conseguenza automatica delle condanne all’ergastolo e alla reclusione non inferiore a cinque anni, oltre che alla dichiarazione di tendenza a delinquere. L’interdizione temporanea – che ha quindi una durata pari a quella della pena scontata – è invece una pena accessoria nel caso di sentenza di condanna non inferiore a tre anni. L’interdizione perpetua dunque esclude per sempre il soggetto dalla vita pubblica, ponendosi in contrasto con la stessa idea di rieducazione individuata come obiettivo della pena. Che risocializzazione può esserci se non si ha modo di prendere parte a quella che rappresenta l’espressione più concreta della cittadinanza attiva?
La presenza di pene interdittive così frequenti ci dice molto sull’idea stessa di concepire la pena e il mondo penitenziario, come segregante e avulso dalla società, nonostante le persone recluse siano cittadini a tutti gli effetti, o almeno dovrebbero esserlo. Difficilmente chi porta avanti una campagna elettorale individua nelle persone recluse soggetti a cui interessarsi, ma ancor meno soggetti presso cui ottenere consenso, come se la loro opinione non contasse o non avessero diritto di decidere nulla della comunità che in fondo abitano.
Bisogna inoltre precisare che anche quei soggetti che conservano il diritto all’elettorato attivo difficilmente lo esercitano, a causa di problemi amministrativi – come ad esempio la mancata previsione della possibilità di un voto postale per chi sconta la propria pena fuori dal Comune di residenza – o la mancanza di informazioni chiare e la lunga procedura da seguire.
Chi possiede i requisiti, infatti, dovrà formulare un’istanza per poter votare all’interno di un seggio speciale appositamente costituito in carcere e i soggetti coinvolti saranno vari, poiché l’istituto dovrà rivolgersi al Comune nelle cui liste elettorali è iscritto il detenuto, il quale dovrà inoltre farsi recapitare la propria tessera elettorale da un familiare o un amico se ne è in possesso. Inoltre, anche raccogliere informazioni può risultare difficile poiché il disinteresse rispetto al tema è lampante, anche all’interno della stessa amministrazione penitenziaria, e può comportare una rassegnazione nella persona reclusa che, pur trovandosi nelle condizioni teoriche di poter votare, si scontra con una realtà macchinosa e si sente, per questo, poco incentivata a esprimere il voto. I dati ce lo confermano: basti pensare che alle elezioni del 2014 – a fronte di un’affluenza generale di quasi il 70% degli aventi diritto all’esterno – in carcere si recò alle urne solo il 5.5%.
Le difficoltà burocratiche riguardano anche chi si trova in carcere in custodia cautelare che, pur conservando l’elettorato attivo, resta escluso dalla società ancor prima di essere condannato.
L’Associazione Antigone e la Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale, oltre a portare avanti proposte di legge che possano ridurre le ipotesi di interdizione, in vista delle imminenti elezioni hanno diffuso dei contenuti per sensibilizzare sul tema, creando inoltre delle locandine sia per le Amministrative sia per i referendum abrogativi che possano raggiungere gli istituti ed essere d’aiuto a chi vuole votare.
Quanto appena descritto è espressione di una pena segregante e punitiva che non persegue altro fine che quello della marginalizzazione, nelle cui pratiche non c’è alcuna traccia di risocializzazione. In questo modo, chi è detenuto non è privato della sola libertà personale, ma in dispregio alla Costituzione e alle norme che regolano l’esecuzione della pena, di ulteriori fondamentali diritti che gli spetterebbero essere umano.
Partecipare alla propria comunità, decidere dei propri rappresentanti, esprimere la propria opinione: se non sono in grado di fare questo, siamo certi che i detenuti siano cittadini?