Nonostante rischino di passare inosservati, fagocitati dall’attenzione prestata alle elezioni amministrative, il prossimo 12 giugno sarà possibile votare anche i cinque quesiti referendari sulla Riforma della Giustizia, presentati da Radicali e Lega. Abbiamo già avuto modo di soffermarci sulla singolarità di una tale “alleanza” e sull’essenza stessa del referendum, che appare più una strumentalizzazione politica che espressione di una reale volontà di coinvolgere i cittadini in cambiamenti decisivi. Basti pensare che si tratta in qualche modo di quesiti di carattere molto tecnico, che i più potrebbero anche avere difficoltà a comprendere fino in fondo. A ciò si aggiunga la scarsa e mala informazione sul tema, che sembra aver già ceduto il posto ad altri dibattiti.
I quesiti inizialmente proposti erano sei, ma uno di questi, finalizzato a introdurre la responsabilità civile diretta dei magistrati, è stato dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale poiché attraverso l’abrogazione si sarebbe operato un ritaglio della norma e una manipolazione non consentita. Il presidente della Consulta, Giuliano Amato, aveva infatti precisato che più che di un quesito abrogativo si sarebbe trattato di una vera e propria innovazione, prevedendo il nostro ordinamento il solo istituto della responsabilità cosiddetta indiretta, che fa capo allo Stato – il quale può poi eventualmente rivalersi sul giudice che ha cagionato il danno.
Lo slogan a sostegno della stessa raccolta firme era stato Chi sbaglia paga, pienamente coerente con le idee su cui il partito di Matteo Salvini ha costruito la sua fortuna, invece un po’ contraddittorio rispetto ai principi professati dai Radicali, oltre che rispetto all’impianto complessivo dei quesiti referendari, tendenzialmente garantista. Questo probabilmente spiega perché il leader del Carroccio, dopo aver sposato l’iniziativa con la sola intenzione di ostacolare la Riforma della Giustizia e di vestirsi da minoranza a tutti i costi, abbia adesso quasi spento i riflettori sul tema.
Arrivando ai quesiti al voto, si tratta per l’appunto di un referendum abrogativo, che chiede di abrogare in tutto o in parte le norme in questione e per la validità del quale è necessario raggiungere un quorum. Precisamente dovrà partecipare alla votazione la maggioranza degli aventi diritto. Innanzitutto, si chiede di abrogare il dlgs 235 del 2012, in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, in applicazione della Legge Severino, anche conosciuta come Legge anticorruzione (L. 190 del 2012). Quest’ultima, infatti, fu adottata con l’obiettivo di introdurre, in particolare all’interno della pubblica amministrazione e delle cariche elettive, un insieme di norme finalizzate a ridurre al minimo i fenomeni di corruzione e implementare le pratiche di trasparenza, disponendo tra le altre cose l’adozione di un atto in tema di incandidabilità.
Se di per sé il dlgs in questione presenta numerose criticità, prima tra tutte una previsione di incandidabilità e sospensione dalle cariche anche nel caso in cui si sia indagati e la propria colpevolezza non sia ancora accertata con sentenza definitiva – in dispregio della presunzione di innocenza su cui si fonda il nostro ordinamento giuridico – l’approvazione di tale quesito comporterebbe la totale abrogazione della disciplina, lasciando dunque scoperte anche quelle ipotesi in cui l’incandidablità appare forse legittima e opportuna. Nonostante ciò, i promotori del referendum lo pubblicizzano solo con riferimento alla sospensione automatica prima della sentenza definitiva, escludendo invece dalla loro campagna mediatica le reali conseguenze dell’abrogazione. Quanto appena detto ci dimostra del resto la scarsa attenzione prestata a un così fondamentale tema, che ha un impatto reale sulla vita dei cittadini.
Il secondo quesito riguarda invece la limitazione delle misure cautelari, intervenendo sull’articolo 274 del Codice di procedura penale, con l’intenzione di eliminare il periodo in cui si fa riferimento a una delle ipotesi per cui viene giustificata l’adozione di tali misure e cioè il pericolo di commettere nuovi reati della stessa specie. Se la ratio assolutamente corretta dalla quale parte il quesito è limitare l’utilizzo delle misure cautelari, specialmente di quelle detentive, di cui si abusa e che rischiano di mettersi in contrasto nuovamente con la presunzione di innocenza, dobbiamo riconoscere che la modalità prescelta non è forse quella adeguata.
Innanzitutto, a essere coinvolte non sarebbero le sole misure detentive, ma anche altre forme di cautele come il divieto di avvicinamento alla persona offesa o l’allontanamento dalla casa familiare, che in alcune circostanze e per alcune categorie di reati risultano però fondamentali. L’abrogazione della disciplina comporterebbe quindi una vacanza a cui sarebbe difficile porre rimedio nel breve termine. Anche in questo caso i promotori risultano poco consapevoli delle conseguenze di ciò che propongono.
Il terzo quesito – eccessivamente lungo e di difficile comprensione – riguarda una serie di norme la cui abrogazione parziale è finalizzata a impedire ai giudici il passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente – tipica del pubblico ministero, per intenderci – che è attualmente permessa, seppur a certe condizioni e per un numero limitato di volte.
I promotori del referendum sostengono che la netta separazione tra le funzioni – una delle quali dovrà essere scelta all’inizio della carriera e non potrà mai più essere cambiata – avrebbe l’effetto di ottenere maggiore equità e imparzialità. Tuttavia, anche in questo caso la vittoria del sì comporterebbe non poco caos: innanzitutto porrebbe la necessità di una revisione della disciplina costituzionale, oltre che legislativa, poiché esse si occupano dei due ruoli dettando una disciplina pressoché identica. Inoltre, il rischio è che si forzi una scelta senza alcuna esperienza, ritrovandosi poi con giudici che non svolgono il proprio lavoro con dedizione, come invece dovrebbero. L’esperienza e la formazione sul campo sono probabilmente i migliori ingredienti per una scelta più consapevole.
Infine, seppur risulti necessaria una riforma della materia che svuoti i soggetti giudicanti di un potere e di una discrezionalità eccessiva, oltre che di una pericolosa commistione con il potere politico, magari ipotizzando la previsione di precisi criteri per effettuare il passaggio, non è di certo un referendum abrogativo la modalità idonea a portarla avanti. Pur ricadendo le conseguenze di una simile scelta indirettamente sui cittadini, essi non sono attualmente nelle condizioni di poterne decidere consapevolmente.
Valutazioni simili potrebbero farsi anche per il quarto quesito referendario, che riguarda invece le modalità di valutazione dei magistrati: attualmente, il Consiglio Superiore della Magistratura procede alle valutazioni di professionalità sulla base dei pareri provenienti dal Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dai Consigli giudiziari, esclusivamente nella loro componente cosiddetta togata. Sono, infatti, i soli magistrati che possono fornire pareri sull’operato di altri giudici, mentre i componenti laici possono esprimersi solo su elementi tecnico-giuridici.
Se da un lato, sarebbe necessario riuscire a calare maggiormente i magistrati all’interno della realtà, magari aprendoli a valutazioni esterne e limitando quindi l’esistenza di un sistema di potere che si nutre di se stesso, non ci sembra questa la modalità giusta: un avvocato che abbia espresso un parere più o meno favorevole su un giudice potrebbe poi ritrovarsi a essere la sua controparte, minando quella stessa terzietà e imparzialità che la modifica mira a salvaguardare. Anche in questo caso la vittoria del sì non potrebbe essere considerata con soddisfazione poiché ci sarebbero da dettare criteri equi e adeguati alle situazioni.
Ultimo quesito, anch’esso di natura procedurale, riguarda l’abrogazione parziale della legge in materia di costituzione e funzionamento del CSM – la Legge 195 del 1958 – che disciplina, tra le altre cose, le modalità di candidatura dei giudici che fanno parte dell’organo di autogoverno della magistratura. Questi ultimi, per proporre la propria nomina, devono raccogliere venticinque firme di magistrati che la sostengano. L’obiettivo dell’abrogazione di tale raccolta firme è quello di evitare illecite influenze delle cosiddette “correnti” che anche in questo caso minerebbero l’imparzialità dei giudici e li esporrebbero a pressioni politiche. Se risulta assolutamente lampante la commistione della funzione giudiziaria con la politica, è anche vero che una simile modifica non risolverebbe di certo il problema poiché quelle firme non rappresentano altro che una delle manifestazioni di tale influenza su cui però non si agirebbe alla radice.
Come abbiamo visto, in particolare per gli ultimi tre quesiti entrano in gioco tecnicismi complessi. I temi sono inoltre contenuti anche nella Riforma della Giustizia che dovrà essere votata al Senato: la sovrapposizione è parziale poiché la riforma, se approvata, interverrebbe con la necessaria disciplina di dettaglio, perseguendo le stesse finalità di fondo ma dimostrando che non è necessaria né utile una modifica semplicemente abrogativa. Nel caso in cui si giungesse a un’approvazione prima della consultazione del 12 giugno, si dovrebbe fare quindi una valutazione sulla necessità di portare comunque al voto tali quesiti.
È molto complicato ricostruire il senso di tale referendum, soprattutto guardandolo alla luce delle conseguenze che esso comporterebbe. Queste ci dimostrano, infatti, che una strumentalizzazione politica non è utile in alcun modo per ottenere reali risultati in termini di migliore sistema della giustizia ma contribuisce esclusivamente a creare caos e poca chiarezza.
Siamo molto scettici sulla buona riuscita della consultazione e, da un certo punto di vista, speriamo che i cittadini si rendano conto dell’inganno in cui vogliono trarli. Per quanto sia sacro il diritto di voto, esso deve essere esercitato consapevolmente e dubitiamo che tutti siano in grado di farlo a queste condizioni. Ancora una volta, ci sembra di essere di fronte a una misera figura delle nostre forze politiche.