Durante l’ultima fiera del libro di Roma, ho scovato un volume giallo evidenziatore. Era lì, tra i banchetti dello stand di Nottetempo, con un titolo criptico: Apparizioni. E nient’altro. Solo il nome dell’autore, Andrea Gentile, riempiva la copertina monocroma. Nessuna immagine o indizio sul contenuto. Ne avevo sentito parlare, ma senza capire di cosa trattasse: spiriti? Fantasmi? Angeli e Madonne? Apro le prime pagine, e mi colpisce una frase: Che cos’è un’apparizione? Tutto appare: viene alla luce. Ma allora questo libro mi è apparso, uscito dall’ombra di colpo, col suo giallo fosforescente. È stato improvviso e inatteso: due caratteristiche essenziali delle apparizioni. Un temporale, una lacrima, un animale morto in autostrada: sono tutte apparizioni, perché ci colgono di sorpresa.
Ma non basta solo l’imprevedibilità, un’apparizione deve generare un mutamento. Felicità, straniamento, sudore, un brivido sulla schiena: sentire una virata, un cambio di direzione, un sussulto. È importante sentire: senza sensazione non c’è apparizione. Dunque, finché un essere umano avrà coscienza e percezione, avrà apparizioni. Il problema, però, è la disponibilità alla contemplazione. La nostra mente è attraversata ogni giorno da un numero di pensieri che oscilla fra i cinquantamila e gli ottantamila. Quando, per un istante, questo fiume di pensieri si ferma, è più probabile che arrivi l’apparizione. Se si ferma il chiacchiericcio che ci riempie il cervello, allora c’è la possibilità di percepire questi frammenti di realtà: attrarre nel proprio orizzonte – è questa l’etimologia di contemplari – e osservare (il volo degli uccelli) dentro un templum.
Un libro, un cancro, una morte in diretta Instagram o un cetriolo molesto in un panino: le apparizioni di Gentile sono vive, concrete, a volte perturbanti e disgustose. E le dobbiamo ringraziare, perché ci rendono vivi. Gentile rincorre questa sensazione in ogni luogo, non vuole sentirsi morto, non vuole non accorgersi della realtà. Ci racconta, capitolo dopo capitolo, l’esperienza stessa delle sue apparizioni, il momento in cui un’opera d’arte l’ha portato a fermare il fiume dei suoi pensieri e osservare. Queste apparizioni, però, non rimandano mai ad altro. Sono pura percezione della realtà. Il che si allontana, sul piano etimologico, dal contemplari. Erano gli àuguri infatti – i sacerdoti romani – a osservare il volo degli uccelli, e non lo facevano per sentirsi vivi, ma per scovare presagi.
Le rivelazioni, le epifanie: le manifestazioni della volontà divina. Da sempre, gran parte degli elementi della realtà che più generavano sgomento – lampi, tuoni, comete – veniva letta come segni di qualcos’altro che cerca di comunicare. La divinazione era proprio questo: l’interpretazione dei segni. In Mesopotamia, i sacerdoti annotavano sulle loro tavolette d’argilla nascite prodigiose o mostruose, comportamenti animali o umani, sogni, fenomeni atmosferici e meteorologici, posizioni degli astri e dei pianeti. Qualsiasi cosa che venisse alla luce. I greci erano ossessionati dai segni del presente poiché convinti che la realtà fosse ordinata da un logos, una ragione universale. Si affidavano agli oracoli per interpretarli, uomini e donne pervasi dalla mantica, letteralmente: pensiero, mania, follia, furore.
Le sibille, gli indovini, gli astrologi: tutti loro basavano profezie e vaticini su registri di eventi insoliti o straordinari. Gli dèi gli parlavano con delicatezza o furore, ma sempre attraverso le sequenze. L’estasi, il momento dell’intuizione, non voleva dire distacco dalla realtà, anzi: le danze ossessive, ripetute, le sostanze psichedeliche e i rituali servivano ad amplificare il proprio sentire. Non c’è apparizione senza sensazione. Per questo, gli oracoli si rendevano più suggestionabili e vulnerabili: miravano ad aprire al massimo la propria percezione della realtà e delle rivelazioni celate in essa. Veniva chiamata chiaroveggenza: visione chiara, la capacità di guardare oltre la conoscenza. Queste pratiche, per quanto piene di superstizione, sono state le antenate del metodo scientifico, attestando una cosa: la contemplazione non è solo estetica, ma necessaria.
Entrambe le cose – scienza e divinazione – hanno avuto un comune nemico: il cristianesimo. Per i cattolici, l’osservazione dei fenomeni naturali non aveva senso perché le uniche rivelazioni sono presenti nelle scritture. Non può essere l’uomo a scoprire i misteri del creato perché solo Dio ha questa conoscenza. E non la comunicherà tramite voli d’uccello o viscere di capra. Eppure, nonostante le posizioni dei sacerdoti, non sono mancate apparizioni all’interno di questa religione. E quelle popolari – le più sentite – sono estremamente corporee. Sangue e lacrime. Tutta la tradizione cattolica è piena di statue di cera che sanguinano o lacrimano. Statue che tradiscono il loro ruolo di statue, non erano che false riproduzioni di un qualcosa, mentre ora si muovono, parlano, si trasformano in ciò che rappresentano. La loro cera, d’improvviso, si fa viva.
Questi segni generano mutamenti: guarigioni, conversioni, sgomento. E generano significati, diventano elementi di un linguaggio che getta ponti tra al di qua e al di là. Il sangue di San Gennaro è un modo di comunicare del santo col popolo napoletano: se si scioglie, tutto andrà bene, altrimenti catastrofi e sciagure investiranno la città. È un modo collettivo di sentirsi in controllo del proprio futuro, sapere cosa aspettarsi e prepararsi. Un po’ come gli oroscopi, che si consultano sempre quando non ci si sente più al comando del proprio destino. Anche le lacrime delle statue di cera appaiono in momenti catastrofici – guerre, pestilenze, saccheggi o invasioni – nei quali il popolo ha bisogno di trovare un senso nel reale. Meccanismi di catarsi in cui si scopre che anche il divino piange per noi, sente ciò che sentiamo noi, e dunque prova pietà.
Ma ritorniamo al corpo – per Gentile, è il massimo generatore di apparizioni. Un neo, un capello bianco, un colpo di tosse (sarà Covid?), la prima eiaculazione. Tutte epifanie. E come abbiamo notato, nelle apparizioni cristiane il corpo è centrale: Dio parla attraverso corpi di cera, terracotta, bronzo. E invita i credenti ad appropriarsi delle secrezioni di quei corpi: venivano sempre immersi, dal popolo, batuffoli di cotone nel sangue e nelle lacrime. Questi materiali organici diventano il mezzo privilegiato dal divino per apparire, per comunicare e farsi presente nella storia umana. Anche la cera, così malleabile, diventa quasi un materiale organico: riesce a ricreare peli, unghie, capelli e denti, una riproduzione perfetta e spaventosa della corporeità umana. Anche per Gentile, il perturbante, le apparizioni, sono dentro di noi.
Corpo, fulmine, astro: sono elementi diversi, ma il risultato è sempre la divinazione. Si è evoluta secondo le varie influenze religiose, ma l’uomo ha continuato a ricercare nella materia che lo circonda dei segni, e le ha attribuito significati epifanici. Nonostante la diffidenza della Chiesa verso lo sguardo volto ai fenomeni naturali, i fedeli hanno continuato a credere che le stelle cadenti delle notti estive fossero le lacrime di San Lorenzo. Come i norreni e i greci, che vedevano epifanie numinose nelle tempeste. Non è facile estirpare questa tendenza: neanch’io sono riuscita ad affrontare il tema apparizioni senza evocare alcuno spirito, divinità, sogno, oracolo o premonizione. E non è un male di per sé, per l’umanità, cercare di leggere la natura e i corpi tramite l’osservazione. E neanche dare spazio alle sensazioni generate da quella contemplazione. Ci ha aiutati a capire come funziona il mondo.
Uno dei miei libri preferiti si chiama Piranesi. Racconta di una Casa che è un mondo: i suoi corridoi e saloni abbandonati si diramano infiniti, labirintici, pieni di bellissime statue di marmo. Imponenti scalinate in rovina portano a piani dove è troppo rischioso addentrarsi: fitte coltri di nubi nascondono i piani superiori, mentre maree imprevedibili sommergono i saloni inferiori. Nella Casa vive Piranesi, il suo unico abitante, che registra nei suoi diari ogni cosa che gli appare. Enormi uccelli, banchi di pesci, venti, maree e corpi celesti si susseguono nelle annotazioni, con accuratezza. Il fantastico di Clarke si popola di simboli: niente è semplicemente ciò che appare. È così che Piranesi ha capito come muoversi nella Casa, come abitarla in armonia, vivendo dei suoi frutti e schivando le forti maree che lo porterebbero nei suoi abissi. Ma ogni martedì Piranesi si incontra con l’Altro: un uomo altero ed elegante che sembra venire da qualche altro luogo.
C’è una differenza tra Piranesi e l’Altro. Il primo ama la Casa, si perde nelle sue meraviglie e nei suoi segreti, ed è convinto di essere vivo solo per poterne testimoniarne la bellezza. Il secondo vuole domarla. Ne vuole scoprire i poteri e imbrigliarli. L’Altro non è sensibile alle apparizioni, ai segni, non si interessa dei racconti di Piranesi, che inutilmente gli racconta i messaggi scoperti nel volo degli uccelli. Mira a uno scopo preciso, sfruttare la Casa al massimo. Dunque, ecco due modi di interfacciarsi con la realtà. Il primo: percepire tutto ciò che accade, annotarlo, sentirlo. Testimoniare la bellezza, interpretare i segni naturali, lasciarci coinvolgere dalle intuizioni. Il secondo: notare solo ciò che serve allo scopo finale, cioè conquistare la realtà, prosciugarla, dissanguarla. Quindi, essere ostili all’imprevisto, all’ignoto, e non si lasciarsi andare alle apparizioni.
Piranesi faceva divinazione, contemplazione, l’Altro faceva estrazione. L’umanità, ancora oggi, non riesce a fare a meno di queste modalità. Non ci sono più oracoli che leggono i voli degli uccelli, ma analisti e scienziati che sommano enormi quantità di dati per capire il mondo. Annotano informazioni nei database esattamente come Piranesi nei suoi diari, e i babilonesi sulle loro tavolette d’argilla. Quello che però manca nei dati è il mistero della divinazione. Voglio che i data scientist leggano vaticini nelle viscere delle capre? No, ma voglio che siano aperti all’apparizione. La modalità di lavoro di questi moderni indovini ricerca i dati dove già sa di poterli trovare: non si apre all’imprevisto. Li estrae dalla realtà con già in mente il loro scopo e il loro significato. Come chi ascolta un amico con già in mente cosa dovrà ribattere: si focalizzerà solo sugli elementi del discorso che servono per la sua risposta.
E non ascolta, non sente davvero. Non contempla, non attrae nulla nel proprio orizzonte che non ci sia già. Il dato è rilevazione, quindi non può essere apparizione. Invertire questa dinamica è fondamentale. Spuria da ogni superstizione, la modalità della divinazione era interessante perché attenta a qualsiasi evento che si manifestava. E, poi, perché si legava al sentire. Ogni individuo provava qualcosa nel rapportarsi ai presagi, li connetteva alla propria vita, gli dava un senso e un’interpretazione. Non restavano né distanti né separati dal quotidiano: non era importante solo l’evento che li generava, ma cosa avrebbero portato nelle vite di ciascuno. Dopotutto, se prima ci si aiutava con le ossa dei polli e con i fondi del tè, perché non usare la tecnologia per interpretare le apparizioni?