Se gli Stati Uniti d’America sono il faro della democrazia occidentale – l’unica, tra l’altro, che ci pare non priva di difetti – Joe Biden ne è, per forza di cose, lo strenuo guardiano. Lo è, d’altro canto, come ogni Presidente americano che si rispetti, non soltanto un semplice inquilino della Casa Bianca, ma il nume tutelare dei diritti di ciascun essere umano. E lo è, come ogni altro Presidente americano, non per una regola scritta, una convenzione internazionale, una qualche supremazia concordata, bensì per auto-proclamazione.
Così, democratico per nazionalità e formazione – anche qui nell’accezione statunitense – colui che gli avversari chiamano Sleepy Joe sembra, finalmente, destatosi dal sonno e, dopo un inizio di mandato ancora all’ombra di Donald Trump, è uscito allo scoperto. È bastata la guerra mossa in Ucraina da Putin per restituire a Biden il suo vero volto, così somigliante – come previsto – proprio a chi gli ha tenuto la poltrona in caldo per quattro lunghi (lunghissimi) anni. Le caratteristiche necessarie per ricoprire il ruolo, d’altronde, sono (e devono essere) sempre le stesse e non importa che il vessillo della bandiera sotto cui si giura sia rosso o blu: quel che conta è che la macchina americana si muova come si è sempre mossa, alzando muri e sganciando bombe.
Ecco che, allora, dissipati i dubbi per quei pochi che ancora sembravano averne, la comunicazione del Presidente a stelle e strisce si è fatta finalmente riconoscibile, muscolare, maschia. Americana. Sleepy Joe ha preso posizione e, ovviamente, lo ha fatto nel modo sbagliato. Gli Stati Uniti, con l’Europa a fare da cane al guinzaglio, hanno attivato il solito protocollo, da bravi squali hanno fiutato il sangue e ora tentano di sbranare la preda, un leitmotiv che si ripete ogni qualvolta la necessità di finanziare la guerra si presenta alle porte: e la preda, adesso, non è una sola.
Non è soltanto la Russia dello zar dittatore, il nemico di sempre, quell’ex Unione Sovietica che ancora combatte una Guerra Fredda mai finita. È l’Ucraina di Zelensky a cui Putin ha sempre guardato come a un ponte verso l’Europa e gli USA come a un lasciapassare per la terra un tempo rossa. È il Venezuela, sino a ieri sotto embargo e oggi interlocutore privilegiato. È l’Europa stessa, sempre più assoggettata al giogo a stelle e strisce, zona di conquista e sopraffazione, di mercato e mercimonio, svendutasi da troppo al caro vecchio Zio Sam che ne fa il buono e il cattivo tempo.
Questa guerra – lo scrivevamo all’indomani dall’invasione di Kiev – è, infatti, da leggersi tutt’altro che estemporanea, tutt’altro che ascrivibile all’iniziativa di un pazzo. Esaurirne le cause nell’ego di Putin è una lettura superficiale e inutilmente faziosa. Perché, se spiegare le bombe è senza dubbio complesso, è innegabile che dal 1990 la NATO ha posizionato le proprie armi ovunque attorno al territorio di Mosca, aprendo basi militari in Polonia, Estonia, Lituania, Romania, Bulgaria e Slovacchia. Di fatto, la Russia è stata circondata dai carri armati statunitensi, tenuta sotto stretto controllo dagli USA che hanno adoperato una conquista di carattere coloniale del Vecchio Continente, cosa che – per un territorio in pace – è del tutto assurda, fuori luogo e inaccettabile. Non solo per Mosca.
Persino Papa Francesco è arrivato a dirlo in queste ore, unico leader – stavolta veramente politico – ad abbandonare la propaganda e a fare analisi: «Forse l’abbaiare della NATO alle porte della Russia ha indotto il Capo del Cremlino a reagire male e a scatenare il conflitto. Un’ira che non so se sia stata provocata, ma facilitata sì». Di certo non un modo il suo – e nemmeno il nostro che ne sposiamo le parole – per giustificare la violenza, ma per provare a ragionare sulle cause e sulle conseguenze della tragedia che si sta consumando a pochi chilometri dall’Europa civile con una tempistica affatto trascurabile.
«Siamo a un punto di svolta nella storia, di quelli che arrivano ogni sei o otto generazioni» ha detto il Presidente americano in Alabama, andando a visitare e a ringraziare l’azienda di armi Lockheed Martin che produce i missili forniti all’Ucraina. Il mondo, l’Occidente in particolare, viene da due anni molto difficili. Anni segnati dalla pandemia, dalla crisi economica che è andata acuendosi per tutti ma non per le industrie belliche – che, nel solo 2020, hanno fatturato 531 miliardi di dollari –, due anni in cui il capitalismo ha fatto i conti con se stesso scoprendosi (ancora) fallimentare. Ecco che, allora, come la storia insegna, è il suo istinto di sopravvivenza a generare nuovo conflitto, a muovere l’economica di guerra che fabbrica, vende e distribuisce armamenti. A capo di questa economia ci sono proprio loro, gli Stati Uniti d’America.
Sono statunitensi, infatti, le principali aziende produttrici di armi al mondo: la già citata Lockheed Martin Corp. – che Biden ha ringraziato infinite volte definendola l’arsenale della democrazia –, la Raytheon Technologiese, la Boieng United States e la Northrop Grumman, ad esempio, ma anche tante altre. Aziende che spesso, come vere lobby, finanziano le campagne elettorali degli aspiranti alla White House, loro o le industrie petrolifere. Così non c’è Presidente americano che non sia costretto a restituire il favore riempiendone le tasche. Lo spiegava bene Philip Bump, sul Washington Post, quando Trump minacciava l’Iran di Soleimani.
Il 24% della popolazione americana attuale – circa 77.7 milioni di persone – ha almeno 18 anni, dunque è nato dopo l’inizio dello scontro in Afghanistan. Eppure, è adulto abbastanza da servire nel conflitto cominciato all’indomani dall’attacco alle Torri Gemelle. Come se non bastasse, per circa 26 milioni di statunitensi, il Paese è stato in guerra per almeno tre quarti della loro vita. Metà, invece, per il 58%. Nella statistica sono inclusi soltanto i conflitti maggiori e/o estesi. I dati, quindi, potrebbero essere ancora più inquietanti.
Non sono solo i più giovani, però, a essere cresciuti accettando la guerra come normalità. Basti pensare a Hester Ford, la più anziana del Paese, che dalla propria nascita risalente al 1905 ha visto gli USA combattere per oltre un terzo della sua esistenza, complici le azioni militari in Vietnam e in Afghanistan, i principali territori di scontro. In particolare, quest’ultimo è il conflitto più lungo della storia americana, eppure in tanti, prima della presa di Kabul, ne ignoravano la continuazione. Come la stessa Ford sottolinea, le modalità, nonché la comunicazione bellica, sono cambiate al punto da sembrare sempre un qualcosa di lontano, di estraneo, di appartenente a qualcun altro. E, invece, appartiene a ognuno. Soprattutto, agli Stati Uniti, di George Bush, di Barack Obama, dei loro predecessori e dei loro successori.
È interessante, a tal proposito, riflettere proprio su quest’ultimo, il Presidente Premio Nobel per la Pace che ha assegnato agli USA il primato in quanto a utilizzo dei droni, le bombe intelligenti, quelle che per ogni bersaglio centrato – o mancato – mietono centinaia di vittime civili, innocenti spesso inconsapevoli persino di essere in guerra. Il suo braccio destro, all’epoca, era proprio Joe Biden.
Era già chiara, all’alba del suo mandato, la strada che avrebbe perseguito l’ex vice di Obama, quando dopo la breve interruzione causata dalla pandemia, l’esodo da Sud, negli Stati Uniti, era ripreso deciso. Joe Biden si era ritrovato così, ben in anticipo rispetto allo scadere dei suoi primi cento giorni nello Studio Ovale, ad affrontare la più grande crisi di confine degli ultimi vent’anni, con più di 15mila persone arrivate a Del Rio in appena una settimana e più di centomila arresti al confine tra Messico e Texas. Tra questi, 10mila ai danni di minori.
Come già la gestione precedente, dunque, l’amministrazione democratica aveva optato per misure di deterrenza, anche drastiche, che limitassero i valichi di frontiera, creando non poche difficoltà al Presidente, incapace di rispondere all’emergenza in un modo che non somigliasse troppo a quello del suo avversario. La posizione di Biden, infatti, oscillava – e oscilla ancora – tra la retorica di una politica migratoria umana e una gestione muscolare, come quella delle espulsioni di massa di quei giorni lungo le sponde del fiume, finite addirittura a frustate. Così, nonostante le promesse di rottura netta con il passato, erano state ancora le modalità repubblicane ad avere la meglio negli USA del cambiamento. Non molto tempo dopo, c’è stato l’Afghanistan.
La guerra dei vent’anni è finita con il ritorno dei talebani e la ritirata a stelle e strisce preparata da Trump con l’Accordo di Doha e rivendicata da Biden alla prima occasione – gli americani non devono morire in una guerra che a Kabul non combattono: 4 milioni di profughi e centinaia di migliaia di civili morti cancellati, di colpo, come un danno collaterale; 2300 miliardi di dollari spesi per esportare democrazia spariti perché gli Stati Uniti non possono fare la differenza. Quale differenza possano oggi, dunque, suona piuttosto sospetta.
Già a novembre 2020, in occasione dell’elezione del 46esimo Presidente della storia degli Stati Uniti, ci interrogavamo sulla responsabilità che il voto avrebbe caricato sulle spalle dell’inquilino più celebre di Pennsylvania Avenue. Joe Biden veniva presentato al mondo come colui che avrebbe portato la luce in America come ovunque, dopo la parentesi Tycoon che aveva segnato profondamente la storia e la politica nazionali e internazionali.
Le sue esternazioni roboanti, i suoi modi arroganti e maleducati sono stati sostituiti da un uomo apparentemente più mite, talvolta goffo, di certo più educato. Non un buon Presidente, però. Non un altro che non passerà alla storia per aver combattuto la guerra con la pace. Perché se, come dice Biden, la Russia andrebbe processata per crimini contro l’umanità, state pur certi che allo stesso banco, a quello degli imputati, dovrebbero sedere anche i suoi Stati Uniti. Quelli che a furia di esportare democrazia, le hanno mutato completamente di significato. Ma, si sa, se a fare la destra pensa la sinistra, allora è cosa buona e giusta.