«Sono solo io o c’è qualcun altro qui deluso dalla democrazia?». Con questa domanda, il fisico cileno César Hidalgo ha aperto il suo TED talk. Come in una puntata di Dora l’Esploratrice, ho risposto ad alta voce: «Certo, certo che mi sento delusa». Per anni ho creduto nel sistema della rappresentanza statale, nei partiti, negli equilibri costituzionali. Poi qualcosa si è rotto. Ed è come quando credi a Babbo Natale per troppo tempo: ti senti preso in giro, in imbarazzo e deluso, l’incanto di colpo svanisce. Stessa cosa per la politica: l’astensionismo è alle stelle. All’alba della nostra Repubblica, alle elezioni delle Camere partecipò il 92% della popolazione. Oggi, a stento sfioriamo il 73%. Per non parlare delle Europee, che ormai segnano meno del 55% degli elettori. Ma cosa ci è successo? Secondo Hidalgo, la profilazione, la propaganda illusoria e la corruzione hanno distrutto la fiducia tra cittadini e politici, ogni tipo di rapporto è andato perduto.
Quindi, perché non sostituirli? I politici, intendo. Ridare il potere al popolo, così com’è: senza intermediari corrotti, senza sovrastrutture, senza partiti. Ma come liberarcene? Beh, tramite la tecnologia. Tempo fa, parlai di tecno-utopia: la narrazione mitologica del digitale. Per i tecno-guru, il digitale potrà mettere fine al tempo, agli Stati, alla politica, e catapultarci in una società 2.0: trasparente, orizzontale e libera. Un’idea che ben si presta all’uso da parte di anti-partiti populisti, tra cui il MoVimento 5 Stelle: no alla casta, sì al web onnipotente. Una panacea per gli elettori insoddisfatti, che all’inizio hanno sentito nella piattaforma Rousseau un ritorno del potere nelle proprie mani, anzi, nella propria tastiera. Peccato che il cyber-party italiano abbia usato questa retorica per giustificare ulteriore verticismo.
Ma César Hidalgo non è un politico. È un ex professore del MIT, un esperto di IA, di intelligenze collettive, di Data Visualization. Per questo, ho ascoltato con interesse le sue idee, sperando in una valida proposta di democrazia aumentata, un’alleanza tra uomo e agenti computazionali. «E se, invece di scavalcare i politici, li automatizzassimo?». Come i tessitori francesi automatizzarono il telaio, “vincendo la guerra industriale”, così si dovrà fare con la classe politica. Sì, avete capito bene: politici robot. L’idea funziona così: ognuno di noi potrebbe “addestrare” una propria intelligenza artificiale. Dopo una serie di test volontari, questa imparerebbe le nostre opinioni politiche, le nostre idee, diventando capace di votare per noi. Così, invece di avere pochi rappresentanti eletti, ognuno di noi avrebbe il suo piccolo politico digitale, pronto a far valere i nostri interessi. 60 milioni 317mila parlamentari digitali per 60 milioni 317mila italiani.
Curioso come, per superare la rappresentanza, Hidalgo abbia proposto l’aumento esponenziale dei rappresentanti. I piccoli “grilli parlanti robot” di Hidalgo non sono difficili da realizzare, sarebbero i figli degli algoritmi usati nei sistemi di raccomandazione. Quelli che ci dicono, in base alle nostre preferenze, il prossimo film da guardare su Netflix o la playlist Spotify perfetta per noi. Solo che, pescando da quel cocktail di idee liberali, conservatrici o estremiste che caratterizzano ognuno di noi, sceglierebbero le proposte politiche da far diventare legge. Non è neanche difficile renderli efficienti: gli algoritmi sono capaci di anticipare le nostre scelte di consumo in base ai like, figuriamoci se gli serviamo noi i dati sul piatto d’argento. Dopotutto, è già stato fatto: lo scandalo di Cambridge Analytica ci ha insegnato com’è facile bombardare l’elettorato con programmi politici personalizzati in base alle nostre attività su Facebook.
Cosa cambia dal grosso scandalo menzionato? La volontarietà e il risultato finale: non più propaganda ad hoc, ma un rappresentante su misura. E a proposito di programmi politici personalizzati: in Francia, proprio durante l’accesa disputa tra il tecnocrate Macron e la populista Le Pen, un gruppo di ricercatori ha lanciato una nuova piattaforma digitale. Si chiama MonProgramme2022.org ed è l’ultimo progetto del Center for Collective Learning, il laboratorio di ricerca interdisciplinare dell’Università di Tolosa. Indovinate chi guida il team? Bravi, César Hidalgo. Il team non mira a influenzare le elezioni, ma a un esperimento sociale. Hidalgo aveva già espresso la sua intenzione di creare delle “palestre” per i suoi grilli parlanti, dei sistemi per individuare le falle e i punti di forza dei suoi algoritmi. E questo è il senso della piattaforma: ora vi spiego come funziona.
Secondo i coautori della piattaforma, i candidati ormai sono un prodotto, delle vetrine, per questo hanno deciso di concentrarsi sui programmi piuttosto che sui nomi. Dai programmi dei dodici candidati al primo turno delle elezioni francesi, i ricercatori hanno estratto 120 proposte. E poi le hanno mescolate. Senza rivelare cosa appartenesse a chi. L’utente si troverà di fronte una serie di proposte, alle quali dovrà votare sì o no. Alla fine del procedimento, si arriverà a un programma individuale, che verrà aggregato a tutti gli altri, creando un megaprogrammone chiamato Notre Programme. Mi sono prestata al giochino, tanto ho avuto uno Huawei e sono già profilata in 193 Stati. All’inizio, mi si presentavano simpatiche proposte reazionarie del tipo: Vuoi sbattere fuori dalla Francia qualsiasi persona con l’hijab? S o N, risp. Chissà a quale candidata apparterranno. Dopo una serie di furiosi no schiacciati con violenza sulla tastiera, le proposte si sono date una calmata.
L’algoritmo stava capendo che sono radical chic. Così, le nuove domande viravano su cose più carine tipo legalizzare i matrimoni LGBTQ+ e uscire dal Comando Integrato della NATO. Oltre ad approvarle o meno, ogni tot mi veniva chiesto di stilare una top chart delle mie proposte preferite. Uff, questo pimp my program è più difficile del previsto: come faccio a scegliere se è più importante il reddito universale, il diritto di asilo ai rifugiati o la depenalizzazione del fine vita? Eppure, ho dovuto attribuire i numeretti di un podio immaginario a ciascuna proposta. Per non parlare del senso di inadeguatezza di fronte a certe domande: Inviare le armi in Ucraina, sì o no?, Espellere i criminali stranieri alla fine della loro pena, sì o no?, Creare un registro penale per i trasgressori sessuali e le persone condannate per molestie sessuali, sì o no?. Mi girava la testa. Avrei voluto più tempo, ascoltare le opinioni degli altri, ma c’ero solo io di fronte allo schermo.
Mi sono sentita sola. Mi sono sentita sommersa. Per essere un esercizio di intelligenza collettiva, era davvero deserto. Alla fine del percorso, mi è stato rifilato il programmino e la piattaforma mi ha suggerito di inoltrarlo agli altri. Ma altri chi? Dove sono? Non c’era modo nella piattaforma stessa di confrontarmi con nessuno, le mie risposte sono finite in una generica statistica. Sono circa 1500 le persone che hanno partecipato al voto, eppure io non ne ho incontrata nemmeno una. Allora, mi sento truffata. Se César Hidalgo fosse salito sul palco di TED dichiarando che voleva trasformare il Parlamento in Sanremo, non avrei avuto da ridire. Sarebbe stato onesto: la sua è una piattaforma di televoto. Ma ciò che mi perplime è l’uso di determinate parole: democrazia digitale partecipata, diretta, deliberazione, intelligenza collettiva.
Sono una grande fan delle parole, e mi piace che vengano usate con precisione. Allora, facciamo un po’ di chiarezza sui termini usati. Primo: democrazia. Treccani la definisce come forma di governo che si basa sulla sovranità popolare e garantisce a ogni cittadino la partecipazione in piena uguaglianza all’esercizio del potere pubblico. Nasce nell’Atene di Pericle nel V secolo a.C., in una forma particolare: la democrazia diretta. I cittadini ateniesi avevano la possibilità di partecipare senza intermediazioni con la discussione e con il voto all’Assemblea popolare della città (l’Ecclesia), esercitando un vero e proprio potere legislativo diretto. Il potere dell’Ecclesia era bilanciato dalla Bulè, organo formato da 500 cittadini eletti per sorteggio ogni anno. La Bulè elaborava le proposte da sottoporre all’Ecclesia. Dunque, tutti i cittadini maschi adulti – tranne servi e stranieri – potevano partecipare direttamente alla gestione della città.
Come mai ad Atene questa roba funzionava e ora abbiamo smesso? Per due ragioni: uno, la città era uno sputo. Escludi donne, servi e stranieri e bene o male i partecipanti alla vita politica erano pochini. C’era un grado di familiarità tra tutti i cittadini e si risolvevano le cose faccia a faccia. Secondo: c’era la paideia, la formazione umana. Lo spazio civico – la piazza, il quartiere, la città – era un luogo dove ci si civilizzava davvero: col dialogo, le assemblee, i dibattiti, le feste civiche e gli spettacoli teatrali, si formava la propria consapevolezza politica. Si diventava sensibili all’esterno, si creava senso di appartenenza, si negoziavano valori e norme. Oggi, l’individualismo del capitalismo ci ha privati di tutto questo. La sfera pubblica è depoliticizzata, privatizzata, anzi, mi correggo: non c’è sfera pubblica, c’è un pubblico. Il quale assiste, passivo e sfiduciato, alle decisioni prese lassù in alto.
Passo a un’altra parola abusata in questo discorso: partecipazione. La partecipazione, attenti, non si esaurisce nel momento del voto. Altrimenti, saremmo davvero sovrani una volta all’anno. Perciò, ci sono mille modi di partecipazione previsti in Costituzione. Uno dei più importanti è la mediazione dei partiti. Dovrebbero essere i partiti a funzionare come piccole ecclesie, luoghi di aggregazione e confronto. Luoghi di sviluppo della personalità. Sappiamo bene che ormai non lo sono. Dunque, noi cittadini siamo soli. E invece di creare delle agorà digitali dove partecipare davvero alla vita politica, nel progetto di César Hidalgo siamo ancora più isolati. Ciò che manca, e arrivo all’ultima parolina magica, è la deliberazione. Perché se provate a spacciarmi questa roba per processi deliberativi online, vi faccio girare la testa di 360 gradi.
Rubo le parole di qualche vecchio giurista barbuto: la deliberazione è trasformazione delle preferenze. Tramite il confronto e il mutuo apprendimento, le opinioni cambiano, si correggono e ridefiniscono, giungendo non a un compromesso, ma a una codecisione. Da qui, intelligenza collettiva: non acritica somma di preferenze, ma un vero percorso di ricostruzione degli ideali. L’essenza della deliberazione è ridefinire la natura del problema di partenza e costruire un processo di framing condiviso. Ora, ditemi: come possiamo cambiare idea, senza confronto? A meno che tu non sia Gollum, un dibattito con te stesso non sarà molto acceso. E, addirittura, in MonProgramme non c’era neanche quello: l’algoritmo ha scartato a priori le preferenze non in linea col mio pensiero, togliendomi anche l’occasione di contraddirmi.
E così sarebbe nel mondo di grilli parlanti digitali descritto da Hidalgo: l’assemblea non esisterebbe più, né il dibattito. Ci sarebbero solo IA che, in meno di un secondo netto, elaborerebbero e voterebbero miliardi di proposte. E anche se volessimo a un certo punto riprendere il controllo – Hidalgo ha previsto questa possibilità – e votare in autonomia, lo faremmo senza contraddittorio. Chiusi nelle nostre piccole echo-chambers, staremmo lì a premere bottoncini in base alla nostra bolla di convinzioni granitiche. Per non parlare del fatto che aggregazione di tutte le preferenze non equivale per forza a buone decisioni. Ad esempio, se la maggior parte degli Stati Uniti fosse favorevole a generici interventi militari in caso di invasioni di Stati alleati, ora ci troveremmo in una Terza guerra mondiale. Così, de botto, senza senso. Come eliminare il razzismo sistemico dagli algoritmi? E il patriarcato? Come tutelare le minoranze schiacciate da un sistema plebiscitario?
Altro che coscienza politica. Questa è pura amministrazione del consenso. Forse, risolveremmo qualche problema, ma perderemmo la capacità di scovarne altri. Hidalgo, nel suo TED, prendeva in giro chi criticava la sua idea con questa frase: state attenti ai pessimisti, trovano un problema per ogni soluzione. Bello, me lo rivendico. In uno dei più brillanti TEDx in circolazione, Benjamin Bratton afferma che ai problemi non interessa dell’ottimismo di nessuno. Perché sono complessi e difficili, e non esiste una soluzione semplice e pulita. L’iper semplificazione è pericolosa: è prendere qualcosa che ha valore e togliergli il nocciolo, in modo che possa essere ingoiato senza masticare. Non è uno dei modi per confrontare i nostri problemi più spaventosi, è uno dei nostri problemi più spaventosi.
Pare che io sia in modalità ma dove finiremo, signora mia. Ma in realtà credo nella tecnologia. La trovo terribile e meravigliosa. Ma non ci porterà in automatico verso un futuro radioso. C’è troppa fiducia nella tecnologia, e troppo poco impegno. Se qualcosa è rotto, digitalizzarlo non farà altro che amplificare e potenziare quella rottura. Bratton sottolineava come gli innovatori fossero ostili alla medicina placebo, ma non alla politica placebo. Quella veniva portata in trionfo sui palchi di TED. E il problema dei placebo è che non sono solo inefficaci, ma anche dannosi: si prendono i nostri interessi, le energie e l’indignazione, e li fanno virare in un buco nero di affettazione. MonProgramme e i grilli parlanti digitali sono innovazioni placebo. Perché offrono una soluzione semplice a un problema complesso. E non si sporcano le mani.
Se non siamo cinici, dobbiamo essere scettici. Scettici di qualsiasi proposta che non si faccia strada tra le cose difficili: la storia, la filosofia, l’economia, l’arte, le ambiguità e le contraddizioni. Perché concentrarci solo sulla tecnologia e sull’innovazione in realtà impedisce la trasformazione. Proporre una soluzione per la rappresentanza senza uno studio della storia, dei vecchi costituzionalisti barbuti e dei tessuti sociali moderni non rivoluzionerà lo status quo. Lo digitalizzerà. E mentre le nostre macchine diventano sempre più intelligenti, noi diventeremo sempre più stupidi. Ma non deve essere per forza così, potremmo diventare entrambi migliori. Usare dei super computer onniscienti per rappresentare i nostri pregiudizi e la nostra ignoranza non è il modo migliore di sfruttarli. È molto più utile metterli al servizio della conoscenza e della complessità.
Come? Con i dati. La nostra è una società globale e interconnessa, complicata da capire: i cambiamenti climatici, le migrazioni, l’energia, la povertà. Per dargli un senso e guardare al quadro generale, abbiamo bisogno di aiuto. E questo gli agenti computazionali possono farlo. Non farli decidere per noi, ma avere gli strumenti per prendere decisioni valide e informate. Insomma, dobbiamo alzare il livello di comprensione generale al livello di complessità dei sistemi in cui siamo inseriti. Uno dei progetti più interessanti in questo senso è quello di IAQOS, l’amichevole Intelligenza Artificiale di Torpignattara. Fatevi un giro tra le slide: è un’idea di due artisti e amici, Oriana Persico e Salvatore Iaconesi. Non troverete nulla di futuristico e sensazionalista: si tratta di scatole.
Le IAQOS-box sono state sparse in giro per il quartiere, spuntando come funghi dentro scuole e salumerie. E il quartiere ci poteva interagire. Poteva imparare dall’intelligenza artificiale. E IAQOS poteva imparare da lui. Senza sostituirlo. Non era un politico, non era un grillo parlante: IAQOS era un normale cittadino del quartiere. Un modo per conoscere i dati e renderli sensibili, per capirli più facilmente. Io ci vedo tante delle paroline magiche usate prima a sproposito. Partecipazione, deliberazione, intelligenza collettiva. E, pensate, ci vedo pure Atene e le sue agorà. IAQOS è un’occasione per uscire di casa e incontrare la gente. Per riappropriarsi degli spazi della città, per aggregarsi e confrontarsi. Per aprire un dibattito informato, e anche cambiare idea. Civilizzazione attraverso la città, e attraverso la tecnologia. Insomma, un altro futurismo è possibile. Ma ci vuole un lavoro duro e difficile, scettico, di demistificazione e riconcettualizzazione.