Eduardo Savarese scrive È tardi! L’attesa delle donne liriche (pubblicato nel 2021 da Wojtek Edizioni, per la collana Orso Bruno), un volume dalla natura singolare in cui le vicende intime del narratore si alternano alle storie, riprese dai libretti d’opera, di sette protagoniste del teatro lirico che si susseguono una per volta sulla scena per raccontare, con una dignità propriamente femminile, della propria eroica attesa.
È tardi! è un’esclamazione breve e universale, adattabile a varie circostanze: non c’è più il tempo di fare presto; non c’è più il modo di tornare all’ordine precedente. È quel tempo che le donne del melodramma hanno imparato a proteggere e praticare e intrattenere con la voce, davanti a un pubblico che attende, a sua volta, di conoscere e reinterpretare quella storia di speranza che si va palesandosi sul palco e che, dal velluto delle poltrone, risale immediatamente per riversarsi nel mondo, spinta dall’ansia antica e incontenibile di amare: l’altro e se stessi, senza menzogne, senza vergogna.
La ricostruzione delle opere, intermezzate sulla pagina da battute teatrali dal font in evidenza, e da esperienze di vita vissuta o interpretata, è introdotta – per ciascuna delle sette sezioni – da eleganti locandine, alcune esotiche, che si rifanno a quel fascinoso giapponismo a cui tanto si ispirò l’arte figurativa occidentale dell’Ottocento. Si tratta di immagini sospese tra forme stilizzate e linee ondulate che riproducono il mondo vegetale, quelle che la Secessione viennese tracciava in tutta libertà, per rompere ogni legame col passato ma non con la propria natura di riferimento.
È quello che succede, partendo proprio da lontano, a Cio-Cio-San, la protagonista dell’opera pucciniana Madama Butterfly. Anche Puccini avvertì quel desiderio d’Oriente che potesse spingere verso nuove prospettive, verso l’incontro di due mondi, uno ripercorso attraverso l’esotismo e l’altro, quello europeo, che andava sempre più veloce, che bruciava tutto il tempo. Chi aspetta la piccola Cio-Cio-San? Quello di Savarese è un lavoro interiore sull’attesa, un’identificazione con la lirica proprio in quella dimensione di fermo temporale in cui la protagonista o il narratore si trovano a fissare un punto dello spazio – dalla collina di Nagasaki o da una finestra della casa d’infanzia– per aspettare che arrivi qualcuno, che arrivi l’amore.
Cio-Cio-San aspetta un ufficiale della marina statunitense che ha sposato anni prima, rompendo i fili con il passato, con la sua cultura e la sua famiglia; era una giovane geisha, forse ingenua, ma con la matura fierezza di colei che si sente pronta a rispondere al nobile sentimento, a quell’esperienza sincera che può stravolgere tutto. È la stessa sincerità che pretende la prima notte di nozze, prima e unica, dal suo marito straniero, invitandolo a trattarla con cura, in modo che quel suo coraggio nel cedere alla relazione possa essere ricambiato. Come una farfalla catturata o una dea della luna raccolta in se stessa, quella notte, però, la ragazza si abbandona, insieme alla musica, a una tristezza presagistica che porta con sé l’alba e la solitudine.
Mentre il mondo fuori la rinnega e le dà dell’illusa, Madama Butterfly lo aspetta con sicura fede e con realismo spirituale (che corrisponde all’avere una visione chiara delle cose, dei movimenti del mondo e della storia, delle effettive relazioni umane); ad arrivare da lei, però, è la nuda disperazione, la verità. Ella allora affronta con onore anche l’arrivo della sofferenza, sul sottofondo di in una struggente ninnananna, cantata pure un po’ a se stessa. Quando le cose del mondo rivelano la propria violenza, viene istintivo ritornare alle radici, quelle che Butterfly ha dovuto strappare perché in esse non avrebbe potuto trovare la sua realizzazione, e così, quest’incredibile anti-bambola col fare di bambola, padroneggia l’intero suo tempo, fino a quello della fine, alla stessa maniera di come aveva fatto con quello dell’attesa.
Si passa poi dal motivo nipponico tradizionale della danza della geisha al trionfalismo dell’uomo che attende (inno degli Stati Uniti d’America) e viceversa, fino al sipario, al silenzio. Prediligendo le interpretazioni celebri di Maria Callas nelle varie produzioni di quest’opera lirica (come per altre di quelle citate nel libro) e senza mai tralasciare, dunque, la musica dell’orchestra che accompagna le figure femminili nelle loro scelte, che un po’ le spinge, un po’ le avverte – dal cupo contrabbasso agli archi pizzicati, al violino incalzante – l’autore ci porta anche tra le strade di Napoli per ritornare poi ancora una volta all’interno del teatro San Carlo, o di un qualsiasi teatro onirico che abbia sul palco una donna sola, spaventata dall’amore, ma coraggiosa nel farsi attraversare dall’esperienza; e dove, alla poltrona di fianco, ci aspetti una persona cara che condivide la nostra stessa passione.
È allo specchio anche Violetta Valery – proprio come Madama Butterfly nel momento del rituale della vestizione – ed è davanti a questo oggetto rivelatore che, di nuovo, viene restituita alla protagonista in questione l’immagine degli effetti dell’attesa, che sono effetti di consunzione. Violetta è l’eroina de La Traviata di Giuseppe Verdi, la più affascinante padrona di casa di tutta Parigi. Come una perfetta eroina decadente, la giovane affida al piacere e ai divertimenti il compito di alleviare la sua anima, scrollandosi di dosso il giudizio del mondo.
Il narratore intreccia il ricordo del nonno (che, in piena Seconda guerra mondiale, conosce la sua fidanzata cretese, anch’ella malata) con la tubercolosi “lirica” di Violetta, la stessa malattia che un in un tempo lontano ha provocato, nella sua famiglia, una struggente morte precoce. La protagonista de La Traviata, rimasta da sola in scena quando la festa in casa sua è giunta al termine, mentre la musica da banda continua a scherzare sconsiderata e indifferente, fissa la sua espressione allo specchio, uno strumento che smaschera le illusioni e mette sotto al naso la crudeltà della morte.
Anche Violetta come Cio-Cio-San ritorna al passato sull’approssimarsi alla fine. Dopo aver vinto la paura di un serio amore, che porta il nome di Alfredo, la donna si lascia andare a una gioia finora mai provata: essere amata, amando. La vera attesa di Violetta è quindi l’arrivo di colui che aspetta da una vita, attesa ripresa sul finale e consumata in quella casa di campagna che sembra rifarsi a quella dove visse lo stesso Giuseppe Verdi con la sua Giuseppina Strepponi. Poiché il vincolo matrimoniale esula dalla natura libera della donna, il sentimento che consola qui diviene rinuncia e condanna all’infelicità, un sacrificio d’amore – quale croce e delizia – che vuole però restare nella memoria, così che almeno la sua tanto sofferta richiesta Amami, Alfredo sia impressa come simbolo di coraggio, in un linguaggio delicato che è molto simile a quello dei fiori.
La morte rappresenta la libertà dalla solitudine per Butterfly, dalla malattia per Violetta ed è sempre liberazione dall’attesa. Morte è libertà – e verità – anche per Carmen, disposta a perdere la vita pur di non concedersi al mondo, quello maschile soprattutto; Lucia si libera alla follia mentre la Contessa mozartiana attende che il suo Conte ritorni emotivamente da lei; Elettra, invece, aspetta il fratello e la vendetta insieme e Norma (archetipo simbolo di ogni attesa), infine, il risveglio del suo amore per il nemico. Tutte queste eroine non sono poi così distanti dalle Maestre d’amore delle commedie e tragedie shakespeariane (Giulietta, Ofelia, Desdemona e le altre), fosse solo per quel modo che hanno, interpretando se stesse, di riguardare l’umanità femminile intera, così come fanno i rispettivi compagni, in un femminile e maschile che si intrecciano reciprocamente e vicendevolmente al solo scopo di incontrarsi, o non incontrarsi (mai) più.
Mi chiedo come può essere che questi sembianti di uomini e donne, che ci hanno incantato modellando i nostri desideri, offrendosi a specchio perché diventassimo grazie a loro quello che siamo, e cioè uomini e donne che amano in un certo modo e non in un altro, come fa Giulietta con Romeo, e Antonio con Cleopatra (come fa Cio-Cio-San con l’americano e Violetta col suo Alfredo) […] e così via; come può essere che, a distanza di secoli, queste creature fiabesche dell’amore ancora dettino a noi, donne e uomini in carne e ossa, i modi immaginari in cui abbandonarci gli uni agli altri […] Come può essere che queste creature ancora ci attraggano, e ci guidino non solo a pensare, ma a vivere l’amore come quella passione complessa e contraddittoria e insieme necessaria, che è? (Nadia Fusini, Einaudi).
È la stessa lezione di sincerità, soprattutto nell’ammettere di avere paura: del non ritorno, dello sradicamento, del desiderio stesso che sconvolge e dell’amore che tutto attende, costantemente.