5 aprile, 1972. Casinò di Sanremo. Faceva caldo: le giornate si erano fatte più lunghe e le gonne più corte. Proprio lì, mesi prima, i Delirium cantavano Jesahel, manifesto hippie, Gianni Morandi faceva il suo debutto e Marcella Bella intonava Montagne Verdi. Già si respirava l’aria frizzantina e polemica dei Settanta: tra lo sciopero dei fonici e la censura de I giorni dell’arcobaleno di Nicola Di Bari, Mike Bongiorno ebbe vita dura. Eppure, nulla poteva presagire cosa sarebbe successo in quell’aprile. Un piccolo gruppo di persone aspettava lì, di fronte alle porte. Era il movimento FUORI! – il Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano. Di quei momenti abbiamo scatti in bianco e nero di pochi ragazzi, pantaloni a zampa e occhiali da sole, che reggevano tra le mani cartelloni su cui campeggiano le scritte Psichiatri! Siamo venuti a curarvi; Nessuno ha il diritto di reprimere la nostra sessualità. Non sapevano di star facendo la storia.
Proprio lì, al Casinò di Sanremo, era stato convocato il primo Congresso internazionale di Sessuologia del CIS (Centro Italiano di Sessuologia). Altro che figli dei fiori, Rolling Stones e rivoluzione sessuale: il tema dell’incontro erano i Comportamenti devianti della sessualità umana. E provate a indovinare cosa c’era all’ordine del giorno? Bravi, siete svegli: l’omosessualità e le terapie di cura. Tra i tanti c’era Giacomo Dacquino, psichiatra e psicoterapeuta, famoso autore di saggi sulle terapie riparative, raccontando di giovani gay che ritrovavano il perduto amore per le donne. Secondo FUORI! lo scopo di questo convegno era chiaro: definire l’omosessualità come una malattia, diffondere la speranza di una cura e aumentare un mercato. E loro non ci stavano. Per la prima volta, un movimento omosessuale uscì dall’ombra per difendere i propri diritti, e si gettò tra le fauci del grande pubblico.
Si parlò di anno primo, giorno primo, Momento Primo Irrinunciabile della uscita fuori. Alcuni la chiamano la Stonewall italiana, ma la verità è che quella del movimento omosessuale del nostro Paese è una storia a sé, che merita di essere conosciuta. Proprio per questo, si è scelto di dedicare il mese di aprile alla storia LGBTQ+ italiana: e, allora, raccontiamo. Abbiamo lasciato gli attivisti di FUORI! – beh – fuori dalle porte del Casinò. Ma, in realtà, era abbastanza semplice entrare. Bastava iscriversi e pagare una quota per partecipare. Così, alcuni attivisti (tra cui Angelo Pezzana e Carlo Sismondi) si misero giacca e cravatta, e marciarono nella sala convegni. Direttamente dalla Francia era lì con loro Françoise d’Eaubonne, la filosofa che presto avrebbe sdoganato il termine “ecofemminismo” sulla scena mondiale. Presa da un fuoco rivoluzionario, la d’Eaubonne si alzò, prese il microfono e sentenziò: «Siete qui per parlare di omosessualità, ma siamo noi a dover parlare di noi stessi. Non vi permetteremo più di definirci come malati, siamo qui per impedirvelo».
Subito dopo, gli attivisti ruppero delle fialette puzzolenti. Fuggi fuggi generale, dottori e psichiatri correvano dappertutto coi loro fazzoletti sul naso. Pezzana ricorda lo psichiatra Giacomo Daquino scappar via nel trambusto con la sua Giulietta Rossa, a cui urlò buon viaggio! con un bel po’ di soddisfazione. Nel giardino del Casinò erano rimasti degli attivisti a fare volantinaggio, tra cui uno splendido Mario Mieli col rossetto sulle labbra e un bel foulard annodato in testa. Presto, avvistarono le luci della polizia. Il movimento FUORI! non era certo formato da ultras: era nato in una piccola libreria da un gruppetto di intellettuali, insegnanti e artisti. Avevano tutto da perdere, soprattutto il loro lavoro. Ed ebbero paura. Ma sapevano di aver fatto la scelta giusta. Il loro primo passo era stato una rivista, mille copie che nel dicembre del 1971 distribuirono nei parchi, piccoli cinema e bagni pubblici. Ma non era abbastanza: gli attivisti volevano uscire fuori, allo scoperto, davvero. Volevano finire sui giornali non più nelle pagine di cronaca nera, non più vittime, ma protagonisti.
E ci riuscirono. Non ci furono resistenze agli arresti, né vetrine spaccate: tranquilli, gli attivisti firmarono un verbale in commissariato, scrivendo Siamo omosessuali, non siamo persone malate. Dobbiamo essere visibili. La polizia li scortò presso il Casinò, ormai pieno di giornalisti. La Rai, il Corriere della Sera e la Stampa. Un inviato di quest’ultima testata vide Pezzana in giacca e cravatta, e gli chiese se fosse uno psichiatra. Lui rispose che no, era semplicemente omosessuale. Una parola inusuale: si parlava di invertiti, pederasti, malati. Ma non omosessuali, quell’insieme di letterine era vietato. E infatti l’inviato era titubante, non era certo di poterlo usare nell’articolo. Pezzana rispose: «Ma la scriva, sarà il primo giornalista italiano a farlo». E così fu. La Stampa fu il primo giornale a fare una piccola rivoluzione. Non una rivoluzione come potremmo intenderla storicamente, né come quella dei moti di Stonewall. Ma una rivoluzione di costume. Per la prima volta, a Sanremo, l’Italia vide donne e uomini che si opponevano con rabbia e durezza alla narrazione che gli veniva imposta. A chi decideva i ruoli per tutti, senza tener conto dei diretti interessati.
Il boicottaggio funzionò, il convegno venne annullato e le posizioni di FUORI! ebbero una risonanza mediatica enorme. Carlo Sismondi, usando uno pseudonimo, diffuse dei forti contro-argomenti al discorso medico del tempo. La psichiatria era per lui una scienza borghese, serva dei padroni. Dava forza solo a chi era al potere, etichettandolo come “sano”, anzi, come parametro di sanità. Tutti gli altri erano deviati, bisognosi di aiuto per tornare sulla retta via, sofferenti nella loro condizione. Sismondi chiamava gli psichiatri «Stregoni del capitale», pronti a reprimere la forza rivoluzionaria delle sessualità divergenti. A nulla serve la falsa pietà e compassione: non le vogliamo. Il movimento FUORI! non chiedeva di essere capito o accettato: l’accettazione comporta sempre un rapporto di subordinazione di un gruppo rispetto a un altro. Ciò che si chiedeva, e si chiede ancora oggi, è autodeterminazione e parità.
La storia dei movimenti LGBTQ+ italiani è fatta di tanti tasselli. Quello del fronte omosessuale è un pezzo importante. E, tutti assieme, compongono un quadro multiforme, meticciato, dove le soggettività si intersecano e si mescolano. Conoscere la storia dell’orgoglio queer italiano non deve servirci a costruire una identità monolitica, granitica e immutabile. Non abbiamo bisogno di certificati d’originalità, di branding identitario: la storia la stiamo facendo oggi, e tutto è in continuo divenire. Non ci sono Gay™ da imitare, non dobbiamo identificare comportamenti o modi di lottare corretti o sbagliati. Mai creare una memoria acritica e monumentale che livelli le differenze individuali in nome della tradizione. Non abbiamo alcun marchio da difendere e definire, che circoscriva ciò che siamo o non siamo. Altrimenti all’orgoglio si sostituirà un senso di inadeguatezza costante.
Dobbiamo, invece, attingere collettivamente a un patrimonio di storie e immagini, senza sacralità o reverenza. Ma condividendo esperienze, emozioni, ricordando e ringraziando chi ci ha portato fin qui. Per poter andare ancora più in là. Dalla storia di FUORI! ho scelto di portarmi dentro una cosa: la rivoluzione dei costumi e degli immaginari vale tanto quanto le altre. Non è migliore né peggiore, è semplicemente necessaria. Rimettere in discussione i termini con cui gli altri ci descrivono, con cui noi ci descriviamo, costantemente. Piccole amnesie collettive, che ci facciano dimenticare solo marchi e bolli. Per permetterci di ricostruirci daccapo. Ricordando, però, il perché ci serve farlo.