Sono circa 15mila le bombe a fissione nucleare presenti sul nostro pianeta, e oltre il 90% è posseduto da Stati Uniti e Russia. Stando ad alcuni studi, ne basterebbero poche decine a cancellare la vita sulla Terra, ciononostante i governi dei due Stati più importanti al mondo si ostinano a sostenere che la deterrenza sia l’unica strada a garantire la pace, anziché il disarmo totale. Il destino dell’intera umanità è, ancora volta, nelle mani degli storici rivali della Guerra Fredda.
Il principale arsenale atomico è quello posseduto dalla Russia (oltre 6mila ordigni) presieduta da Vladimir Putin, seguito da quello statunitense con circa 5500 testate, una potenza distruttiva folle e criminale che, però, non coinvolge soltanto Mosca e Washington ma – per quanto riguarda i Paesi aderenti alla NATO – anche diverse nazioni europee, tra cui l’Italia.
Si tratta del programma di condivisione nucleare firmato dagli alleati e prevede il coinvolgimento di alcuni membri nella pianificazione per l’uso delle armi di distruzione di massa per eccellenza. A oggi, le bombe a stelle e strisce sono presenti sul suolo del Belgio, dell’Olanda, della Turchia e dell’Italia, che si stima ospiti circa novanta ordigni atomici presso basi militari di Aviano e Ghedi.
Ma cosa significa vivere nei pressi di un Comune coinvolto con il programma di condivisione nucleare? Le risposte a questa domanda sono molteplici e riguardano diversi aspetti della vita pubblica e militare. Va innanzitutto considerato che gli accordi siglati tra gli Stati Uniti e i Paesi membri sono assolutamente segreti, motivo per cui non è possibile sapere con certezza con quante bombe è costretta a convivere la popolazione locale. Ad Aviano e, forse, ancor più a Ghedi – in provincia di Brescia – la vita dei cittadini è un continuo fare i conti con esercitazioni e divise mimetiche.
Proprio in queste settimane, la cittadina lombarda è sede di manifestazioni pacifiste e non, un continuo viavai di associazioni e movimenti che invocano il cessate il fuoco in Ucraina che, però, si scontrano spesso con le realtà locali – interessate dalla presenza dei militari – e con le rimostranze neofasciste che tentano di minare ai loro intenti. Lo scorso 25 febbraio, a pochi giorni dallo scoppio della guerra in Ucraina, un centinaio di esponenti dell’estrema destra italiana (foraggiati dal delegato alla sicurezza del luogo) manifestava con striscioni con la scritta stop invasione, non riferendosi, però, a quella russa nei confronti di Kiyv, ma rivolgendosi alla popolazione africana del posto. Solo la presenza delle forze dell’ordine in tenuta antisommossa ha evitato lo scontro fisico.
Non solo le teste rasate 2.0, però, rendono difficile le rimostranze pacifiste. Come si nota aprendo qualsiasi giornale o accendendo la tv sui talk show dedicati al conflitto dell’Est Europa, l’opinione pubblica è fortemente inquinata da una densa nube tossica che insiste nell’equiparare le richieste di pace a un’incredibile solidarietà filo-russa, una narrazione dei fatti che strizza l’occhio esclusivamente agli affari della Leonardo e quanti nel mercato di armi italiano detengono ingenti interessi.
A questo clima ostile si aggiungono anche i benefici economici di quanti – dalla presenza dei militari – traggono il loro guadagno. In un recente reportage condotto proprio a Ghedi da parte della rivista L’Essenziale, si sottolinea come i militari affittano e comprano case, vanno al ristorante e fanno la spesa in paese. Inoltre, hanno sempre avuto un occhio di riguardo per chi abita da queste parti.
Così, solo alcuni circoli culturali e associativi – spesso legati alla politica di sinistra – si fanno megafono di quanti condannano quella che chiamano una vera e propria connivenza, una complicità che va a discapito non soltanto di chi si sente (giustamente!) minacciato dalla presenza di un ingente arsenale atomico capace di spazzare via la città in pochi attimi, ma anche di quanti nelle ricorrenti esercitazioni militari, con aerei da guerra che si alzano in volo di continuo, sono costretti a rifare i tetti delle proprie case perché messi a dura prova dalle vibrazioni che i veicoli bellici sono in grado di sollevare.
Il pericolo più grande, però, è e resta la bomba atomica. A Ghedi, città di 18mila abitanti, lo stato di preallerta nucleare è stato attivato puntuale nella mattina di giovedì 24 febbraio, con il coincidere dei primi bombardamenti russi sul suolo ucraino. Ottenuto il via libera del parlamento con il sostegno di una maggioranza allargata a Fratelli d’Italia – continua L’Essenziale – è da questa base definita “operativa” dalla Nato che dovrebbe prendere il volo, con un ponte aereo verso la Polonia, una parte delle armi che il governo italiano ha deciso di mandare all’Ucraina.
Così, al contrario di quanto sostiene la stampa asservita all’unico pensare concesso oggigiorno, l’Italia assume il ruolo di Paese cobelligerante, un obiettivo militare che la Russia, tramite il Ministro degli Esteri Sergej Lavrov, ha già condannato attraverso parole che sanno di minaccia militare: «È inaccettabile per la Russia che alcuni Paesi europei ospitino armi nucleari degli Stati Uniti. È il momento di rimandarle a casa». Ghedi, così come Aviano, diventa, dunque, potenziale obiettivo di una pericolosa escalation.
Nel 2020, l’associazione ambientalista Greenpace, riprendendo uno studio del Ministero della Difesa, aveva fatto presente come un eventuale attacco alle basi NATO del Nord Italia, a causa della custodia di armi nucleari, comporterebbe la perdita di vite umane fino a 10 milioni di morti. Uno scenario apocalittico tenuto strettamente riservato dai vertici militari, un’ipotesi che – nel caso del Comune di Ghedi – verrebbe aggravato dalla mancanza di un piano di evacuazione, come ammesso dal Sindaco Federico Casali, sempre che possa servire a qualcosa.
Lo Stato, però, dimostra di essere sordo a qualsiasi tipo di rimostranza, anzi, solo lo scorso anno ha autorizzato lavori per 91 milioni di euro per l’ampliamento e l’ammodernamento della base. Sono stati rinnovati i dispositivi di sicurezza e costruite due nuove piste d’atterraggio, una palazzina di comando e un’altra per il simulatore di volo, alcuni depositi e 15 hangar, ognuno dei quali può ospitare due F35. L’inaugurazione delle piste è avvenuta il 18 ottobre 2021, quando i caccia sono decollati per una simulazione di guerra atomica nei cieli del Nord Italia.
Cosa significa, dunque, vivere nei pressi di un Comune coinvolto con il programma di condivisione nucleare? Significa testare il polso di una guerra che non è lontana, significa fare i conti con le scelte di un governo complice, significa essere cobelligeranti e mettere a rischio l’esistenza di milioni di persone per un accordo che non li riguarda, un accordo – come tutti quelli della NATO – che ha dell’incredibile se si pensa che è stato firmato in tempi di pace.
Il reportage dei colleghi de L’Essenziale altro non fa che rafforzare la convinzione che abbiamo che la via diplomatica sia l’unica possibile e che l’Italia possa giocare un ruolo fondamentale nelle trattative, ma Draghi e il Parlamento si stanno sottraendo scientificamente alle proprie responsabilità. La guerra è un affare di tutti. In guerra ci siamo già.