Le navi vanno lente perché non sanno arrivare. È così che mi succede quando scrivo. Vado lento perché non so arrivare. Ogni creatura è un’isola è il romanzo d’esordio di Andrea De Spirt, pubblicato questo febbraio per Il Saggiatore. Mentre in copertina una striscia dritta e densa di mare blu taglia in orizzontale il bianco dello sfondo, la struttura del testo non è lineare, anche se fatta di punti che si susseguono in ordine crescente, diligentemente dal numero uno fino a quasi il cinquecentesimo. Il romanzo si sviluppa in un continuum di pensieri che il narratore e protagonista (xxxxxx) ha necessità di conteggiare, come fosse una sorta di meditazione, un metodo che gli permetta di fare ordine per arrivare a una fine, come quei giochi dove con la penna devi unire i numeri a formare un disegno.
Chi narra teme il disordine e preferisce semplificare il mondo, delimitarlo, per non rischiare di oltrepassare il limite del suo spazio sicuro; quindi lo disegna col pensiero, cercando di dargli la parvenza di una forma che sia confortante. Allo stesso modo fa con la parola “paura” che, su consiglio della dottoressa, elimina dal vocabolario e sostituisce con una più carina: 22. Arrivare fa sempre un po’ pinguino.
Così, in un flusso controllato di coscienza, il narratore prosegue con lentezza nel suo non saper arrivare – e forse non volerlo nemmeno – e si serve, oltre che del filtro della parola “pinguino”, anche di simboli come frecce e spaziature più larghe, per prolungare le pause, respirarvi e rendere ancora più chiara la scrittura. Lo seguiamo tra le correnti dei suoi ricordi, delle riflessioni, dei messaggi vocali e delle e-mail, dei brevi aneddoti da tutto il mondo e delle varie e leggere curiosità che intermezzano il racconto di un viaggio durato più del previsto su un’isola che, se si chiude di fronte alle sue domande, si apre per accogliere la sua solitudine.
Perché io mi posso permettere quel lusso di essere abbandonato, anche se io abbandonato non sono mai, io sono soltanto solo per poter vivere in una solitudine popolata di pensieri, perché io sono un po’ uno spaccone dell’infinito e dell’eternità e l’Infinito e l’Eternità forse hanno un debole per le persone come me. Questa frase di Bohumil Hrabal (tratta da Una solitudine troppo rumorosa – perché è vero, la solitudine è troppo rumorosa) parla di persone come me, persone come isole, come solitudini delimitate, ma che condividono lo stesso mare intorno, il quale è talmente infinito che qualcosa va necessariamente messo tra parentesi. È stato F., il fratello del protagonista di Ogni creatura è un’isola – a insegnargli che le parole importanti, quelle che stanno a cuore, vanno messe tra parentesi. Ed è per F. che questi va sull’isola, perché qui lui è scomparso e tra quelle acque forse si è abbandonato togliendosi la vita.
Il protagonista quindi parte per arrotolare i fili, scoprire il legame tra il fratello e quel posto remoto, perché sconosciuto era diventato lo stesso F. da quando se ne era andato dalla villa, portandosi dietro un vuoto che appartiene a entrambi, pesante sulle spalle come uno zaino rosso. Proprio da questo spazio vuoto, che invece non ha forma, che appare – appunto – eterno e infinito, emergono le parole di coloro che se ne sono andati, quelle registrate sulle cassette, ma soprattutto quelle scritte sulle pagine di un libro lasciato in letargo per un po’. Finire il libro di F. è una delle cose – la più importante – che il protagonista appunta sulla sua lista delle cose da fare prima del termine del viaggio.
Con la sensazione, accentuata dall’isola e dal suo ingannevole confine, di essere privato di una via di fuga – che sia anche dal dolore o dalla nostalgia – il narratore si mette alla ricerca delle tracce che il fratello pare non aver lasciato in nessun angolo di quel pezzo di terra lontano. Prende coraggio nel fare domande alla cameriera, al venditore di frutta, ma poi la frustrazione di non avere risposte lo spinge a pensare di abbandonarlo (di nuovo), il fratello, lì dove sembra che nessuno lo abbia mai visto. Allora, in mancanza di un finale da concedere al libro di F., il protagonista si rifugia nelle pagine che precedono quella fine che non riesce ad arrivare e, in questo modo, un po’ lo ritrova, un po’ lo conosce e un po’ gli parla, perché a volte, di notte, lui risponde attraverso le parole del testo mai concluso.
Sento che i miei pensieri rimarranno per sempre bloccati qui, tra queste cose (un po’ più in là) che non riesco ad abbandonare. Perché in questo luogo è tutto un po’ più in là, è tutto decentrato e, da questa prospettiva laterale si ha l’impressione di arrivare tardi, si ha un dubbio su cosa ci appartenga davvero. Poiché abbandonare significa anche dimenticare, (xxxxxx) resiste, tra formiche, sensi di colpa e gatti neri, che sono molti di più di quelli rossi e che, a differenza delle altre creature, sono gli unici a sapersi orientare; e resiste anche alla pioggia che nelle isole sembra una cosa (fuori posto).
[…] Sono venuto qui per rimettere le cose in ordine, qualsiasi cosa significhi. Per non sentirmi più (fuori posto); come questa pioggia.
Se da piccoli giocavano al teatro per diventare reali, il gioco preferito di F. era però fare il fantasma, giocare a nascondersi da tutti, perché questa è l’unica trasformazione possibile quando si è smesso di essere un piccolo eroico fiore (come il millefoglio giallo). E allora tutto sfugge al narratore, tutto sembra inconsistente, anche una ragazza in bicicletta rossa che il custode gli ha indicato come possibile amica del fratello, una ragazza straniera, schiva e dalle ginocchia sbucciate. Si chiama J. e di F. non riesce a parlare; se dice qualche parola, queste restano in superficie. Ama la poesia, ha un ciondolo con una pietra azzurra e in quei luoghi si sa orientare bene persino al buio, persino fin lassù; solo con lei F. sembra essere esistito, anche se J. non sa parlare di lui.
Tra appunti meticolosi, liste spuntate a metà e resoconti numerici puntuali, l’ultimo giorno dell’isola è come l’ultima sigaretta, o come un’ultima pagina. Nel voler fare che non sono (come quando da bambini giocavano insieme nel giardino della villa a dirsi, tutto il giorno, facciamo che siamo, facciamo che dopo diventiamo?), ci chiediamo se c’è un punto esatto nell’isola e nel testo in cui (xxxxxx) lasci che sia, (faccia che sia), in cui riesca ad abbandonarsi all’assoluto disordine del vuoto per vedere cosa ritorna, cosa rimane.
Si può sopravvivere a un fulmine? E al gioco del fantasma o a quello del teatro? Si può sopravvivere all’isola che si confonde con il mare? Al “mondo senza”? Infine, si può sopravvivere alla fragilità di un fratello che sfugge al vento stesso, e che preferisce ritornare, ma non tornare? È il vento che c’è stato per tutto il viaggio, che è ancora un po’ qui ma non sta; che sta, ma non rimane; che riporta sempre tutto indietro; che non fa scrivere poesie ma che si lascia immortalare in una foto venuta male con la Polaroid.