La plastica è ovunque. Il magico, inquinante materiale, da quando è stato scoperto pochi decenni fa, è diventato la soluzione a qualunque cosa. Resistente, pieghevole, modellabile, adattabile a qualsiasi forma o situazione, è presto diventato il più versatile del mondo e ha sostituito ovunque il vetro, il cuoio, i tessuti, la carta. La plastica ha iniziato a pervadere le nostre vite, rendendo inutili tutte le iniziative per ridimensionarne l’utilizzo perché, quando si elimina da qualche parte, ricompare in altre dieci forme diverse. Eppure, se il suo abbondante impiego l’ha resa potenzialmente pericolosa, è stata l’incapacità di un corretto smaltimento a renderla un serio problema per la salute umana e ambientale. Oggi è ovunque: nell’acqua, nell’atmosfera, nel cibo che mangiamo. E ce ne siamo accorti perché c’è della plastica nella pioggia.
Sembra assurdo, perché la pioggia viene dal cielo, e tutto ciò che può aver inquinato le acque sulla terra non può evaporare insieme alle molecole gassose, contaminare le nuvole e tornare giù sotto forma di pioggia contaminata. Eppure, è proprio così. Il chimico statunitense Gregory Weatherbee stava studiando l’inquinamento da azoto e mai avrebbe pensato di imbattersi nella plastica all’interno dei suoi campioni di acqua piovana delle Montagne Rocciose. Delle microplastiche nell’acqua marina sapevamo già tutto, di inghiottirla nel pesce che mangiamo eravamo già vagamente consapevoli, ma alla plastica nella pioggia, o nell’atmosfera addirittura, non avevamo mai pensato. E il fatto che quantità impressionanti di microplastiche siano presenti nelle precipitazioni piovose e nevose ne conferma la presenza anche nell’aria che respiriamo.
L’aspetto più inquietante ha riguardato le quantità. Weatherbee stava studiando dei campioni raccolti nei parchi naturali e nei luoghi protetti in cui non c’è contaminazione umana. E le sue ricerche hanno stimato che sulla superficie degli 11 parchi nazionali analizzati era presente una quantità di microplastiche pari a 120 milioni di bottiglie, tutte provenienti dalla pioggia. Solo al pensiero di migliaia di microparticelle velenose che entrano nei nostri corpi a ogni respiro o a ogni sorso d’acqua dovremmo rabbrividire. Eppure, da quando Weatherbee ha fatto la sua inquietante scoperta sono passati due anni, e nessun provvedimento è stato preso. Anzi, della plastica nella pioggia non si è mai più parlato.
Un altro studio dell’anno successivo ha confermato tali dati. Anche in questo caso, sono state esaminate aree lontane dall’intervento umano, nelle quali sono state trovate particelle di plastica trasportate dal vento e dalla pioggia. Si tratta per lo più di microfibre sintetiche utilizzate per la creazione di indumenti e di microplastiche contenute in altri tipi di merci, come le creme e i prodotti sintetici. Secondo le stime effettuate a partire dalle rilevazioni, nell’ambiente si depositeranno circa 11 miliardi di tonnellate di plastica entro il 2025. Si tratta di numeri impressionanti, ma semplicissimi da spiegare quando si prende coscienza della quantità di plastica che produciamo e consumiamo quotidianamente.
Ogni anno produciamo circa 330 milioni di tonnellate di plastica. Ogni volta che acquistiamo prodotti monouso, o che gettiamo qualcosa di rotto invece di ripararlo, ci raccontiamo la favola del riciclo. Ci diciamo che tanto quella plastica verrà riutilizzata e che, dunque, non è un problema gettarla via. Il problema, però, sta nel fatto che solo il 9% della plastica che consumiamo viene riciclata. Un’altra piccola parte finisce negli inceneritori, grazie ai quali non viene dispersa ma certamente non viene recuperata, e quasi l’80% di tutta la plastica che produciamo ogni anno finisce nell’ambiente. Una parte nelle discariche, che sono i luoghi meno idonei allo smaltimento del tanto tossico e persistente materiale, e una parte (molto grande) ovunque. Negli oceani, che ospitano le gigantesche garbage patch, o trash vortex, quelle isole di platica che galleggiano nei nostri mari, oppure sui fondali dove uccidono la fauna marina e distruggono gli ecosistemi. Nella terra, inquinando le nostre colture e il cibo con cui si nutrono gli animali d’allevamento. E, a quanto pare, anche nell’atmosfera. Perché quei rifiuti plastici non restano intatti e, con il passare del tempo, si degradano in frammenti sempre più piccoli che si insinuano dappertutto, fino ad arrivare anche nel nostro organismo.
Non si hanno ancora dati approfonditi sugli effetti delle microplastiche all’interno degli organismi umani. L’effetto più evidente è quello legato ad altri patogeni: i minuscoli frammenti che ingeriamo o inaliamo, infatti, spesso si fanno veicolo di altri organismi estremamente dannosi per la salute umana che approfittano del passaggio per entrare nell’organismo. Ma anche le microplastiche in sé causano molti danni. In base alla loro composizione, possono danneggiare il sistema endocrino e causare problemi alla riproduzione e al metabolismo.
Non eravamo certamente a corto di studi che indicano quanto la plastica sia dannosa per noi, per la nostra salute e per l’ambiente. Eppure ogni nuova conferma non sembra scalfirci. Così come nessun evento atmosferico anomalo ci desta dal sonno profondo nei confronti del cambiamento climatico. È il nostro modus operandi, quello di ignorare il problema fino alla fine.
La presenza della plastica nella pioggia ci dà solo un’altra conferma, che non abbiamo scampo, che la plastica è ovunque, anche nell’acqua che beviamo e nell’aria che respiriamo. Ci dice che non siamo al sicuro se scegliamo solo alimenti biologici, non lo siamo se ci cibiamo solo di prodotti vegetali, non lo siamo neanche se viviamo su un’isola deserta lontani da ogni forma di inquinamento. La plastica, quel bene così prezioso che abbiamo creato noi, del quale non pensiamo di riuscire a fare a meno, ci sta uccidendo, invadendo lentamente ogni angolo del mondo come un parassita che abbiamo invitato a casa nostra. E che stiamo guardando mentre ci divora a poco a poco.