La questione della leadership dal Secondo Quaderno
[…] e intorno a lui si raggruppano gli “spauriti”, le “pecore idrofobe” della piccola borghesia.
La tendenza oligarchica delle nazioni moderne parte da molto lontano e, paradossalmente, non è un problema esclusivo delle destre e dei partiti nazionalisti. È una specie di tendenza genetica dell’uomo contemporaneo a riconoscere virtù, quasi innaturali, al leader di turno. C’è una forte somiglianza agli ordini monacali, dove l’ordine stesso prendeva il nome del leader che lo aveva fondato. Pensiamo ai francescani o ai benedettini: tramutato questo concetto nei partiti moderni, compreso quelli socialisti, è avvenuta la stessa cosa (lassalliani, marxisti…).
È chiaro che questo fenomeno porta alla deificazione dei capi, a volte durante la loro vita. In questo senso si può leggere per vero che il grande errore di Enrico Berlinguer sia stato quello di morire, perché quel vuoto, che ha lasciato senza eredi, ha polverizzato l’esperienza comunista italiana.
È altresì vero che il filo nero della destra italica arriva intatto da Mussolini a Berlusconi, attraverso quello che molti studiosi definiscono il culto del corpo del capo. Non è tanto, quindi, il nebuloso programma del leader, quanto la sconfinata fiducia delle masse impaurite nella sua capacità di leggere la realtà e di indirizzarla. In questo senso, l’unto, ossia colui prescelto da un potere superiore, elimina i concetti di lealtà, coerenza, verifica dei risultati, frullandola in un semplicissimo legame di sudditanza, spontaneo o meno. Mussolini, ad esempio, era convinto che nulla potesse capitargli prima di aver portato a termine la sua “missione”. Così usava il partito per governare lo Stato e governava lo Stato per controllare il partito. Il tutto, naturalmente, si risolveva in un bluff di logica, prima che di azione politica.
Le dittature, quanto le oligarchie, utilizzano i fenomeni di negazione della realtà spudoratamente e, spesso, senza nessun controllo sociale. Ma esempi attuali sono molteplici: il successo della Lega secessionista al Sud; la drammatica irrealtà del MoVimento 5 Stelle legato mani e piedi agli umori di un uomo solo e senza una base ideologica coerente; la morbosità, anche del sottoscritto, di osservare da vicino la vita di Silvio Berlusconi che, amato o odiato, è in cima ai nostri pensieri. Il carisma, questo strano mix di doti reali e capacità comunicative, diventa nel mondo contemporaneo il limite fisiologico di ogni nuovo movimento.
[…] si compiaceva di vantarsi dinnanzi ai fautori dell’idolatria che godeva da parte delle masse deliranti e delle vergini vestite di bianco che gli cantavano dei cori e gli offrivano dei fiori.
Non stiamo parlando del bunga bunga ma di Lassalle, un socialista, che si vantava di voler forgiare con tutte le volontà disperse, un enorme martello e metterlo in mano a un uomo solo, la cui intelligenza è garanzia di volontà superiore. Questo è, in sintesi, il martello di un dittatore, di destra o sinistra che sia.
Uno dei limiti dei nuovi movimenti e partiti della sinistra italiana è quello di affannarsi sempre alla ricerca del leader e non della base formata e informata che legittima e determina la leadership. È un problema legato alla fragilità collettiva che, in qualche modo, cerca figure rassicuranti di riferimento. La piramide del potere, invece, per essere incisiva e duratura dovrebbe partire esattamente al contrario di come fa. Individuare il militante, poi l’agenda con la quale stabilire priorità d’azione, poi dei quadri di riferimento per problematiche e territori, solo dopo dei collettori di collegamento centrali e, alla fine, la leadership di rappresentanza della base stessa.
È chiaro, lo stesso Gramsci ne è consapevole, che il carisma del capo è fondamentale per tutto l’ingranaggio politico, ma è la parte finale di un processo di aggregazione sano, non il suo inizio.
Quando il capo esercita un influsso sui suoi aderenti per qualità così eminenti che sembrano soprannaturali a questi ultimi, esso può essere chiamato “capo carismatico”, dono di dio, ricompensa.
Insomma il grande leader comunista individua i limiti di una leadership che non sia circolare, diffusa, espressione finale delle istanze altissime della società e non, invece, emanazione carismatica di una personalità superiore o presunta tale.
Contributo a cura di Luca Musella