Sono immagini suggestive quelle delle piazze italiane strapiene di bandiere della pace. Particolarmente colorata e partecipata è stata, lo scorso fine settimana, la manifestazione voluta dal Sindaco Nardella che ha tenuto a puntualizzare che la piazza di Firenze è aperta tutti, è nata per unire e non per dividere, e così è stato: ha unito quanti hanno a cuore la pace a tutti i costi, favorendo il dialogo, gli incontri e ogni iniziativa che possa incoraggiare il raggiungimento di un accordo, ma anche chi la pace la chiede favorendo e alimentando il conflitto, fornendo sistemi anticarro e antiaereo, mitragliatrici leggere e pesanti, mortai ed equipaggiamenti militari con tanto di sigillo del governo italiano.
A dare vigore alla pace armata, anche alcuni dei rappresentanti della politica che hanno votato con tutte le altre forze presenti in Parlamento (244 sì, 13 no, 3 astenuti) per l’invio del materiale bellico, da Enrico Letta a Matteo Renzi, da Casini a Della Vedova, Calenda ed Elio Vito. Applausi a scena aperta anche quando il Presidente Zelensky, in collegamento video, ha chiesto di «chiudere i cieli dell’Ucraina», invocando quindi la no fly zone che – come noto e più volte ribadito dagli esperti militari – comporterebbe l’immediato inizio di una guerra mondiale. Applausi comunque da una piazza che o non ha capito o fa finta di non comprendere che senza il raggiungimento di un disarmo la pace non sarà mai possibile, se non con compromessi temporanei, e che l’invio di equipaggiamenti e materiale militare significa partecipare, essere dentro il conflitto, di certo non favorire un accordo di non belligeranza ma rischiare di allargare il conflitto in maniera irreparabile.
Piazze passate in fretta dal no green pass a un pacifismo, se non qualunquistico, alquanto superficiale, particolarmente sentito in Europa per lo scenario troppo vicino, ma del tutto inesistente per altri teatri di guerra, come Siria, Yemen, Etiopia, Mali, Libia, Somalia o l’eterno conflitto israelo-palestinese. In quei casi, plateali bugie con invasioni ingiustificate e incomprensibili ribaltamenti di governi nella logica di un’esportazione di democrazia pagata a caro prezzo di vite umane e distruzioni, piazze deserte e bandiere ammainate.
La memoria gioca brutti scherzi e, stavolta, non riguarda il solito personaggio dalle multi-felpe colorate con scritte ammiccanti per i soliti ingenui, reduce dall’ennesima figuraccia (internazionale), ma quanti – pur in buona fede – nelle piazze colorate uniscono il grido di pace a quello di chi in nome e per loro conto ha deciso di gettare benzina su un fuoco che suona come pura follia. Scarsa memoria, superficialità o filosofia di una pace armata ottenuta con l’ausilio delle armi, con la vita di donne, uomini e bambini?
Intanto, i massacri in atto, la fuga verso altri Paesi, la resistenza contro l’invasore, le migliaia di arresti di dissidenti, il controllo dell’informazione e la chiusura dei social, la legge promulgata lo scorso 4 marzo dalla DUMA sulla responsabilità penale e amministrativa per la diffusione di fake news sulle forze armate russe con pene fino a quindici anni stanno portando indietro di qualche decennio la Russia dello zar Putin, già ben noto alle cronache per la soppressione di giornalisti e dissidenti.
Si calcola, in effetti, che il Paese sia il terzo al mondo, dopo Algeria e Iraq, per il più alto numero di giornalisti morti a seguito di arresti o scomparsi del tutto. Uno dei casi più eclatanti è quello accaduto nel 2006 con l’omicidio della cronista Anna Politkovskaja successivo ai numerosi articoli in cui accusava Putin di aver fatto della Russia uno Stato di polizia. Ma la Politkovskaja è soltanto una dei trentuno giornalisti uccisi tra il 1999 e il 2022.
Le piazze della pace, vogliamo ribadirlo, hanno senso unicamente in nome della non violenza e della soluzione diplomatica, come quella riempitasi sotto l’Arco della Pace a Milano, fuori dal coro, contro l’invasione dell’Ucraina, per il disarmo come unica alternativa ai conflitti armati e contro il crescente aumento del traffico di armi e degli stanziamenti dei singoli Stati per le spese militari. Basti pensare che nel solo 2020 sono aumentate del 2.6% (+9.3 nell’ultimo decennio) per una spesa complessiva di 1981 miliardi di dollari, come si rileva dal recente rapporto SIPRI sulla spesa militare nel mondo.
Stati Uniti in cima alla classifica, a seguire Cina, India, Russia, Regno Unito, Arabia Saudita, Germania, Francia, Giappone, Corea del Sud e Italia: un mercato difficile da distruggere, dati utili per comprendere il nascere di conflitti ancora in atto in più parti del mondo e ora anche in Europa, un mercato forse ancor più necessario in una fase post pandemica sanitaria che ha ulteriormente messo in crisi le economie, un mercato probabilmente indispensabile per risollevare le sorti di un sistema duro a morire, seppur fallimentare, che torna comodo alle lobby commerciali.
Una strana coincidenza o l’inevitabile conseguenza di un sistema obsoleto capace di collassare al primo spezzarsi di uno o più anelli della catena produttiva, di una macchina che non conosce interruzioni di sorta? Considerazioni che abbiamo avuto già modo di porre alla riflessione dei lettori in occasione dell’esplodere della pandemia con tutto ciò che ha comportato nella vita sociale dei nostri territori.
Sarà il caso di riflettere e guardare con occhi diversi il mondo che ci circonda, di pretendere risposte diverse e lungimiranti da chi è alla guida del Paese decidendo in nome e per conto della gran parte di una comunità che non intende dare alcuna delega in quanto a partecipazione a conflitti e spedizioni di pace sotto mentite spoglie.