Per i vicoli di Montesanto, di Latilla e dello Spirito Santo, Maria Vitale si accorse che a quell’ora non passava anima viva. Solo per dove si va a Toledo c’era un caffettiere ambulante. Erano le cinque e mezzo del mattino. Maria Vitale sembra essere la protagonista della novella Telegrafi dello Stato (che apre il volume Il romanzo della fanciulla) con la quale l’autrice Matilde Serao riporta il lettore nella Napoli di fine Ottocento, tra vicoli dai nomi esatti che conducono a Palazzo Gravina, un edificio antico che accoglieva gli uffici postali e sui quali muri si stendeva una fioritura verticale di funghi bianchi, gli isolatori telegrafici di porcellana, da cui partivan tutti quei fili sottilissimi, come trama leggera che si stende sul mondo.
Le stradine di Napoli introducono e si intrecciano a un altro elemento ramificante: i fili elettrici dei telegrafi, quei circuiti diretti che hanno bisogno della corrente per funzionare; allo stesso modo, tutte le altre impiegate della sezione femminile compaiono nella storia necessitando della Vitale o di una compagna che le faccia spazio, riprese ciascuna in un particolare del volto o dell’atteggiamento come da un altro occhio, l’occhio di una collega alla macchina accanto. Ecco allora che Peppina Sanna, Giulietta Scarano, Adelina Markò e tutte le altre prendono posto, ognuna con la propria personalità, dietro l’apparecchio telegrafico e, seguendo diligentemente quasi sempre il proprio turno e le proprie assegnazioni, ricominciano col nuovo giorno a srotolare carta, ordinare registri e battere sui tasti.
Il racconto è in terza persona ma tanto partecipato e spettegolato che non sorprende venire a conoscenza che la stessa Matilde Serao, conclusi gli studi, avesse vinto un concorso come ausiliaria ai Telegrafi di Stato e vi avesse lavorato per tre anni, forse fino a quando la vocazione letteraria non incominciò a scalciare più forte. Sembra riconoscerla sulla copertina del volume pubblicato lo scorso 8 marzo dalla casa editrice Alessandro Polidoro Editore, che ha riportato alle stampe questa speciale novella in un’inedita formula accompagnata da una prefazione di Vincenza Alfano. È proprio qui che ritroviamo delle rivelazioni autobiografiche dell’autrice, colei che secondo Anna Banti aveva il giornalismo nel sangue:
Voi vivete in me, come eravate un tempo, nei corridoi e nelle aule della Scuola Normale, negli uffici del Telegrafo, ai balconi provinciali di Santa Maria ove fioriscono le gaggie e gli amori […] tutte quante le vostre voci, o amiche, felici o infelici, lontane, lontane tutte, mi risuonano nella testa, in coro.
Non a caso il libro viene pubblicato nella Giornata internazionale della donna, un giorno di considerazioni, di rendiconto annuale, in cui tirare le somme e riflettere sul percorso di parità di genere e discriminazione. Quella che la Serao innesta nella sua novella è una denuncia in nome delle telegrafiste, un’intera categoria che, semplicemente mostrando se stessa nel suo essere lavorante e quotidiano, vuole portare in luce l’errore di un intero sistema. È un sistema culturale sul quale ci interroghiamo costantemente ma che ancora oggi restituisce dati di grande amarezza: donne trattate ancora diversamente dai colleghi uomini, destinate a non veder riconosciuto il valore del proprio impiego, donne che percepiscono stipendi minimi, che non avanzano di ruolo e hanno perso la fiducia.
In Telegrafi dello Stato la Serao si concentra sulla condizione lavorativa delle impiegate, minacciate da multe imminenti, incastrate in turni sfiancanti e in un avvenire deprimente in cui si vedono già in strada, vecchie, instupidite, senza sapere fare altro, consumate nella salute e senza un soldo; auto-costringendosi in straordinari, a disposizione della direzione, rinunciano al Natale e barattano la leggerezza della gioventù con speranze di indipendenza, che quasi sempre si rivelano un servilismo cronico sotto mentite spoglie, dagli abiti nuovi. D’altronde, la giornalista napoletana si è sempre riproposta di raccontare l’attualità, dallo sventramento della sua città ne Il ventre di Napoli, passando per le leggende napoletane e per l’anima dei fiori e quindi per altre dimensioni più poetiche e coesistenti.
Matilde Serao scatta l’attuale borghese e popolare come da dietro una macchina fotografica, rincorrendo una modernità che si affretta a dileguarsi. Un attuale che non si riconosce più adesso che la macchina è diventata viva, affamata, che si è mangiata il tempo naturale e ha introdotto le sue pericolose regole e i suoi ritmi privi di ogni spontaneità. La scrittrice registra allora quel vago turbamento che compare al mattino quando si aprono gli occhi, che sbuca dall’alba invernale e si trascina fino a oltre il tramonto; quello che si fa pacata rassegnazione quando le ausiliarie dei Telegrafi accettano senza fiatare l’assegnazione delle linee giornaliere. Quello che si fa panico misto ad adrenalina quando per via di elezioni politiche i fili si ingorgano e si accumulano. Quello che si fa noia quando le condizioni meteorologiche concedono a intermittenza la trasmissione ma poi fanno scintillare i cavi.
Prima di perderla di vista, seguiamo allora Maria Vitale in una strada quasi deserta alle cinque e mezzo del mattino, così assonnata che avrebbe scambiato qualsiasi cosa per la felicità, e cioè dormire fino alle nove. Ma non possedendo l’orologio in casa e non volendo beccarsi un’altra multa per il ritardo a lavoro, anticipatasi un po’ troppo si era, però, pigramente ricongiunta con le altre; queste, allo squillo del timbro, in silenzio, sfilavano tutte davanti alla scrivania della direttrice per raggiungere la postazione, ognuna con una faccia assonnata, scialba o smorta, senza ridere: Poi, nella quiete mattinale, principiò il ticchettio dei tasti sulle incudinette, e ogni tanto, queste frasi suonavano monotonamente: «Direttrice, Caserta non risponde».
Curva sulle macchine, nessuna si accorgeva del sole di inverno, mentre durante i turni serali non c’era luce nemmeno per leggere o fare l’uncinetto nelle pause rubate. Si rubavano anche le comunicazioni alla sezione femminile, nonostante la conversazione sulla linea, salvo affari urgenti di ufficio, era severamente proibita. Con qualche piccolo accorgimento, le ragazze infrangevano con gusto le regole per parlare d’amore o di politica con i rispettivi corrispondenti di linea. I giorni di festa erano fatti apposta per la corrispondenza proibita: le ragazze si seccavano – per il poco lavoro – e quel parlare con un ignoto, a tanta distanza, lusingava la loro fantasia.
Divisi tramite una porta dalla sezione femminile, i telegrafisti condividevano con loro le stesse facce stanche o annoiate, ma non figurano quasi mai nella storia. Solo nel delirio telegrafico dell’ingombro dei dispacci, durante un giorno d’ufficio più frenetico, quello in cui addirittura la parte femminile poté corrispondere con la capitale, quello in cui tutte le macchine erano in funzione, la porta di comunicazione tra le sezioni restò semiaperta, un evento raro e fugace che tutte si sforzarono di non notare. Dell’universo maschile, a comparire in maniera più distinta è solo il direttore, un uomo solenne, pervaso da quella dominazione tranquilla degli uomini che non subiscono la femminilità.
Tra pettegolezzi e soavi leggende sentimentali, come quella del fischio dell’innamorato di Peppina De Notaris, la dolce tristezza femminile ha pochi momenti di vivacità. Chi lo faceva per maritarsi, chi per aiutare in casa, le ausiliarie erano colpite tutte nella loro anima giovanile da un’improvvisa vecchiezza, da una rassegnazione tutta giovanile. Mentre la direttrice aveva il pallore d’avorio delle zitelle trentenni, qualcuna voleva andare a ballare, chiedendo e sperando in una mezz’ora di permesso per riprendersi un po’ di quella frivolezza concessa a chi aveva i loro stessi anni; ma esauste a fine giornata, spezzate in tutte le giunture, non avevano più nessuna vanità, non provavano più nessun stimolo. E chi aveva ancora voglia di acconciarsi le trecce disfatte era guardata dalle altre con invidia, e anche con un po’ di meraviglia.
Quando arrivava la pioggia, poi, l’impiego telegrafico era tutto un lavoro di pazienza. Tra i divieti di toccare con le dita il metallo dei tasti perché le ausiliarie potrebbero prendere una scarica elettrica, e avvertenze del tipo Vi è pericolo, linee alla terra!, sembra che la corrente latente, che ha messo in moto tutto e tutte, collassi improvvisamente. Più che l’ufficio di Napoli, con il temporale che arriva, a essere isolata è la Macchina stessa, che può essere metaforicamente configurata con l’animo umano e collettivo. Si vive con le macchine in una tale simbiosi che quando la corrente elettrica vacilla pare ammalata. Con i nervi a fior di pelle, il sensibile apparato meccanico arresta con sé ogni cosa e il moto della macchina volge al termine in un’epifania di connessioni.
Erano giorni di festa del ’94 anche quando Ugo Ojetti si recò presso lo studio della Serao per intervistarla (testo inserito a chiusura del volumetto Telegrafi dello Stato) e la trovò immersa in belle rilegature oltre un’alta porta a vetri, mentre dalla stanza accanto si distinguevano voci infantili. A sigarette accese si poté cominciare a discorrere: Voi mi domandate del romanzo italiano. Il romanzo italiano non può esistere, per ora e la lingua, secondo la giornalista, ne era una delle ragioni. Certa di non saper scrivere bene per l’incompiutezza dei suoi studi, ammise che se per caso un giorno avesse imparato a farlo in maniera aulica e lucente, non l’avrebbe fatto comunque perché credeva nel calore del linguaggio incerto, di quella vivacità che può infondere solo uno stile rotto.
Perché il popolo ha bisogno di calore, è inquieto e spinto fuori dalla propria umanità da una sensazione pungente, alla ricerca di qualcosa di soprasensorio che possa sfuggire dalla fatica di tutti i giorni, che possa non risentire delle difficoltà economiche e sociali, che possa finalmente confortare. A chi prega quindi il popolo quando non ne può più e quando avverte che è tardi? A chi rivolge la sua preghiera quando sul collo sente lo stesso giogo della umanità greve, della tristezza animale, della caducità? Dal profondo oscuro nei quali meandri l’intervista si stava insinuando, quelle voci infantili della stanza accanto si fecero più felici. L’intervista di Ugo Ojetti si chiude così, come un racconto natalizio dal retrogusto malinconico, con i bambini di Matilde Serao che mostrano ai due adulti un grande presepe di pastori e angeli.
Natale è speranza, ma è anche quel giorno in cui la malinconia si fa più piena, ingrossa i polmoni, blocca il respiro. Si prova in nome di tutti i Natali andati e futuri, di quella manciata disordinata di momenti intimi che la modernità scaccia via in un attimo, come fossero delle mosche, che nemmeno li guarda. Ed è per questo che Ojetti e Serao nell’intervista hanno incominciato a riflettere proprio sulla letteratura, perché farlo è riflettere sull’umanità. È riflettere sul popolo, sulla donna, sull’uomo, su una città tanto reale quanto immaginata, sulla vita vissuta, sulla morte rivelata. È la malinconia di quando ci si accorge che è tardi. E ci si affanna, e si ricomincia. Ma tardi per cosa?