Nell’immaginario comune, la guerra è un concetto terribilmente barbarico. È questo il primo termine che ci viene in mente, è quella con la barbarie la più immediata associazione che facciamo. La guerra è barbarica anche prima di essere crudele, inutile o inaccettabile, e la scelta di questo termine, seppur inconscia, non può essere casuale. Il concetto di barbaro ha origini antiche, risale agli antenati greci e romani che lo usavano più o meno allo stesso modo. Gli antichi romani definivano barbari tutti gli altri popoli. Non solo stranieri, ma qualcosa di peggio. Gli stranieri, quelli di hospes, -itis, erano forestieri ma anche ospiti, qualcuno da accogliere o che accoglie, qualcuno con cui scambiare qualcosa e con cui essere sempre gentili e disponibili, una legge non scritta che conoscevano tutti. I barbari, invece, erano l’altro da sé, un diverso inteso nella più bassa concezione del termine, quello di indegno, impuro, tanto ignobile da essere incomprensibile.
È questo, dopotutto, per noi la guerra. Qualcosa di inaccettabile, che un popolo evoluto non farebbe mai, qualcosa che può riguardare solo chi è diverso da noi, povero o ignorante o semplicemente inferiore. È per questo, probabilmente, che la guerra fuori dai confini dell’Europa non ci disturba più di tanto. Nel corso degli ultimi decenni si sono susseguiti conflitti su conflitti in tanti angoli di mondo e noi abbiamo sempre quotidianamente guardato le immagini di quelle infami lotte per la vita con sorprendente freddezza, ingenuamente convinti che fossero lontane non solo geograficamente ma anche culturalmente. Quelle guerre non ci toccano perché a noi non capiterebbe mai. Quelle guerre non sono per noi.
Poi, giovedì mattina, il colpo di scena più prevedibile della storia ci ha fatto svegliare con la guerra in casa. Nella nostra Europa, a pochi passi da qui. Certo, è sempre qualcuno di diverso, non proprio uguale a noi se vogliamo seguire la narrazione della supremazia occidentale, però è più vicina, più imminente di qualunque altro conflitto a cui abbiamo assistito. Ci riguarda. Ci riguarda per tutte le conseguenze che avrà su di noi e sulla nostra vita, quelle prevedibili – come l’innalzamento dei costi di tanti prodotti e servizi e l’insufficienza di energia e di gas – e quelle imprevedibili, quelle conseguenze dirette alle quali non vogliamo neanche pensare. E ora che la guerra ci riguarda, iniziamo a chiederci perché accade. Ce lo chiediamo perché averla così prossima stona con la definizione che le abbiamo sempre dato. Se è barbarica come può riguardarci, come può coinvolgerci? Com’è possibile che nell’illuminato ventunesimo secolo, o nei luoghi in cui si vive come pensiamo si debba vivere in questo millennio, arrivi la guerra? Sarà mica che siamo meno evoluti di quanto pensiamo?
Ebbene, non serve scomodare il buon vecchio Michel Foucault per capire che la guerra è tutta una questione di potere. Non di denaro, non di orgoglio, non di benessere del popolo – figuriamoci – ma un semplice gioco di potere. Quel potere che permette la creazione di una verità attraverso la guerra. Secondo il filosofo francese, se il discorso produce la verità, chi lo pronuncia detiene il potere. La guerra è ciò che permette di cambiare punto di vista, di prendere la parola e di riscrivere la storia. E, stando a sentire Orwell, chi controlla il passato controlla il futuro.
A questo, si aggiunge l’inevitabile convinzione di cui la nostra società è inconsapevolmente intrisa che il potere riguardi la violenza. Ci diciamo che è una questione di forza e la forza non è esclusivamente violenta, ma è una giustificazione che ci diamo per non pensare a quanto la nostra vita sia scandita dalla retorica della sopraffazione come unica strada per il successo. Quella stessa convinzione che per millenni ha portato eserciti di uomini a conquistare le terre altrui per il solo gusto del sopruso, quella tendenza al dominio dell’altro come unico scopo, ancora persiste nelle nostre vite.
Inoltre, secondo Foucault, c’è un’inestricabile correlazione tra guerra e politica. Se da un lato la guerra può nascere come continuazione della politica, come strumento di controllo nelle mani dei potenti, anche la politica, a sua volta, è una continuazione della guerra, adoperata come mezzo fondamentale per prevenire il disordine civile. È questo, probabilmente, il punto di ogni guerra. Quella furia entropica scatenata da spari ed esplosioni mira, paradossalmente, all’ordine. Un ordine, però, che sa di freddo, di immobile, di privo di vita. Quel disordine che si vuole evitare, quell’esercizio del dissenso o del potere popolare che può essere la democrazia, non crea caos per nessuno se non per chi detiene il potere, perché vive nel costante terrore di perderlo.
Nell’analisi di Foucault, la guerra non è la massima espressione del potere poiché quello del conflitto è il momento in cui questo è più esposto e vulnerabile. Ed è qui che non può che nascere una riflessione in merito agli eventi delle ultime settimane che ci hanno portato le bombe tra la sorpresa di chi pensava che in Europa non potessero cadere. Una riflessione che dovrebbe condurre a ridimensionare la considerazione della fatidica evoluzione occidentale, quella che la guerra non la fa, quella che è umana e misericordiosa e soprattutto abbastanza civilizzata da non aver bisogno di dimostrare la propria virile potenza con atti di lotta armata, violenza e prepotenza.
Putin ha iniziato una guerra a causa della sua relazione complicata con il potere, quello che detiene con la violenza e che vive nel costante terrore di perdere. E nel nostro superbo immaginario è lui il barbaro, quello che muove guerra come uno spartano che ce l’ha con gli ateniesi. È l’uomo che ha attaccato un Paese, che ha ucciso dei civili, perché non poteva tollerare una decisione democratica. Ha usato la violenza, quella che da millenni erroneamente associamo alla potenza, per annullare il potere della democrazia, che minaccia costantemente il suo di potere, e ha calpestato diritti e vite per farlo. Ma dall’alto della nostra superiorissima posizione c’è da chiederci cosa abbiamo noi a che fare con la guerra. Cosa fa l’Europa, cosa fanno gli Usa, cosa fa l’Occidente.
L’Occidente, mai privo di colpe come crede, si prepara alla guerra. Si arma, si unisce in alleanze, consolida patti di difesa pensati per momenti di conflitto solo per prepararsi ad altri conflitti. E se la guerra è il momento di debolezza del potere violento, è la guerra potenziale, quella a cui ci si prepara, a conferire quello vero. Non è meno barbarico, non è più evoluto, non è più occidentale l’Occidente, che si espande fingendosi pacifico ma si prepara alla guerra perché non si può mai sapere. Ed è qui che non trova alcuna differenza tra sé e i guerrafondai. È qui che comprende che può provare a distinguersi in tutela dei diritti e in libertà, ma non nell’uso della violenza.
L’uomo cresce intorno all’idea di potenza e di forza come unica garanzia del successo, un successo che si raggiunge con la violenza e nient’altro. Finché questa sovrastruttura regnerà in tutte le società, finché la prevaricazione resterà l’unica possibilità di trionfo, la guerra non smetterà di esistere e nessuno vivrà davvero in pace.