Pochi mesi fa, Mark Zuckerberg ha lanciato la fatidica presentazione della nuova stella polare del gruppo Facebook: la creazione del Metaverso, una realtà virtuale condivisa tramite internet. All’interno di questo nuovo cosmo in computer grafica saremo tutti rappresentati da avatar realistici capaci di interazioni simultanee: potremo chiacchierare, giocare a scacchi, fare sport e viaggiare per il mondo senza muoverci di casa. Il progetto è così fondamentale per il creatore di Facebook che ha addirittura rinominato la sua compagnia Meta, dal greco oltre. E infatti si va oltre l’attuale business model della compagnia, ma non molto più in là. Consiglio la visione intera della presentazione a tutti gli appassionati alle fiction distopiche o ai dialoghi di The Lady, ma proverò in questo articolo a fare chiarezza sul fatto che, al momento, la presentazione non sia altro che provare a mettere la propria bandierina sulla luna senza ancora averci messo su un piede.
Prima di tutto, il termine Metaverso è stato coniato da Neal Stephenson nel suo romanzo post-cyberpunk Snow Crash. Si tratta di un racconto distopico ambientato in un’America in balia dei franchising, delle corporation e di un’economia capitalistica senza controllo, in cui anche gli stati hanno ceduto il passo ai grossi gruppi economici. Le persone comuni vivono a metà tra due mondi, potendo accedere al Metaverso, realtà virtuale 3D condivisa sulla rete mondiale a fibre ottiche, in cui si viene rappresentati da avatar che possono facilmente aggirarsi per bar, negozi e locali alla moda. Insomma, la prima mezz’ora della presentazione di Zuckerberg consiste nella copia di tutti gli elementi del romanzo, ma riletti in toni tecnottimisti e utopici. Realtà del genere sono già state ricreate da piattaforme come Second Life e Active Words, e l’idea alla loro base risale a innovatori ancora più risalenti.
Non è un concetto nuovo, ma in questo caso è stato rebrandizzato e posto sotto una nuova etichetta, implementato da buzzwords e immagini mozzafiato: Zuckerberg ha avuto il merito di aver creato un nuovo immaginario e un nuovo linguaggio, pescando a destra e manca da quelli preesistenti, ma sconosciuti al grande pubblico e disconnessi tra loro. È interessante quindi comprendere, pezzo per pezzo, tutti i mattoncini di questa nuova visione. Mark inizia a parlare nel salotto di casa sua e, man mano, si sposta nella sua stessa casa ricreata perfettamente nel Metaverso. La presentazione continua così, saltellando dal reale al virtuale in maniera dolce, senza brusche interruzioni, con transizioni percettibili solo grazie agli sfondi fantastici che a tratti si possono scorgere dalle finestre di casa Zuckerberg. E questo è un primo punto focale del progetto: la transizione frictionless, priva di frizione.
La parola chiave, ripetuta costantemente durante la presentazione, significa che l’utente non deve neanche rendersi conto del passaggio tra reale e virtuale. Il confine si assottiglia, le sfere si confondono, diventano così omogenee da non esserci più bisogno di log out. Gli oggetti che si possiedono nella vita potranno essere ricreati, perfettamente uguali, nel Metaverso, e ciò che viene acquistato virtualmente potrà essere visualizzato nella realtà attraverso la realtà aumentata. I pop-up delle notifiche appariranno direttamente nello spazio di fronte ai nostri occhi, basta avere su degli occhiali che sovrappongano i due mondi in maniera costante. Il Metaverso è anche la vita, e la vita è il Metaverso.
A sottolineare questa frictionlesness sono i grandi assenti di questa presentazione: gli strumenti utili a interagire col Metaverso. In tutti i momenti salienti della presentazione non appaiono mai visori, caschi o qualsiasi oggetto utile a ricordarci che il passaggio da un mondo all’altro può avvenire solo grazie alla tecnologia. Zuckerberg in carne e ossa e Zuckerberg avatar si intercambiano costantemente, gli umani interagiscono con oggetti virtuali senza nemmeno indossare uno straccio di occhiale, e ologrammi di campioni giapponesi di ping-pong appaiono dal nulla, pronti a giocare con noi in provincia di Macerata. La cosa è alquanto preoccupante: a ogni innovazione tecnologica, andrebbe sempre accompagnato un discorso critico sull’utilizzo consapevole di uno strumento, mentre qui si cerca di annullare la percezione stessa di starne usando uno.
E quando si perde la consapevolezza di usare uno strumento, quando diventa così naturale da poter accadere sovrappensiero, si rischia di diventare gli strumenti. È quello che succede oggi con gran parte dei social, i quali capitalizzano estraendo dati dalle interazioni costanti che abbiamo sulle piattaforme. I nostri tap acritici sullo schermo sono una miniera d’oro, e immaginate quanto si potrebbero moltiplicare in un universo così sovrapponibile e interconnesso con la realtà. Un po’ come quelle mucche alle quali sono stati messi dei visori sugli occhi con le immagini di un prato: convinte di pascolarci dentro felici e contente, producono molto più latte di quando realizzano di essere chiuse in una stalla. Non voglio però abbandonarmi in visioni apocalittiche per un semplice motivo: tutto ciò non è imminente né inevitabile. Zuckerberg, in realtà, non ha ancora idea di come sviluppare interamente la sua visione.
Le dodici aree descritte nei progetti del Metaverso si sviluppano in aree in cui le tecnologie non sono ancora pronte all’utilizzo. Questo è stato anche apertamente ammesso da Zuckerberg, che ha fatto l’unica cosa che poteva: spendere un sacco di soldi in telecamere, registi e computer grafica per creare la più lunga pubblicità del secolo dopo il Mago dell’Esselunga. Dalla quantità di volte in cui la parola “economia” è stata usata, è chiaro che il caro Mark stava parlando, in primis, agli investitori. Gli serviva convincere la borsa che il suo progetto ha infiniti risvolti economici sui quali è bene puntare. Il gruppo Meta ha bisogno di coinvolgere altri big, altri creatori, tecnici e grossi finanziatori per realizzare un progetto che avrà bisogno di un minimo di cinque anni. Per non parlare della fruibilità: la tecnologia attecchisce in massa solo quando è totalmente rifinita e semplice da usare, il che potrebbe realizzarsi anche tra dieci anni.
Mark, però, ha bisogno anche di noi. Ha bisogno di gente che interagisca già con le prime bozze del Metaverso, per testarlo e per valorizzare i dati prodotti. Perciò la fretta di lanciare la sua idea in un momento propizio come quello attuale, così nero e deprimente da portare la gente a cercare una scappatoia. Dopotutto, in pandemia abbiamo fatto le prove generali, e sono andate più che bene per l’ex gruppo Facebook. Mark ha infatti giocato su idee e concetti che sono stati sdoganati proprio durante la crisi da Covid-19: lo smart working, le call con gli amici per simulare la loro presenza, la necessità di sentirsi in compagnia anche se fisicamente soli. Zuckerberg sottolinea spesso il fatto che gli avatar potranno simulare the feeling of presence, la sensazione di essere davvero in un luogo assieme agli altri. Addio alle fastidiose interferenze, buffering, e alla freddezza di uno schermo piatto.
Si parla spesso di esperienza, di incanalamento della vita reale in uno spazio digitale. Spazi portanti del Metaverso saranno infatti Horizon Home, Horizon World e Horizon Workroom. Il primo sarà una copia della propria casa implementata, perché sia mai lasciare la proprietà privata fuori da qualcosa. Il secondo sarà uno spazio dove ciascuno potrà creare il proprio mondo, e per ciascuno intendo chi avrà i soldi per farlo: negozi, locali, catene. Qui ci si potrà incontrare con i propri simili senza sentire il loro odore e comprare merchandising in forma di NFT (qui un bell’articolo sulla truffa che si cela dietro questo nome). E il terzo, beh il terzo non ha bisogno di presentazioni: è la stanza del lavoro. È innegabile che lo smart working abbia risvolti positivi, come la riduzione di spostamenti anti-ecologici e l’assunzione di persone che non possono permettersi di vivere in grandi città. Però, ha i suoi rischi: già nella presentazione, possiamo osservare una ragazza che, nel suo tempo libero, viene richiamata dal suo capo in forma di avatar in una stanza virtuale.
Il peggio, però, resta il fatto che il mondo del lavoro verrebbe catapultato irrimediabilmente all’interno di un monopolio. Perché questo è il Metaverso: Zuckerberg ne ha reclamato il concetto stesso, e chiunque vorrà parteciparvi dovrà entrare nel suo reame. E un reame ha una sola corona, capace di avere ogni dato e informazione dei sudditi obbligati a restare. Vane sono le promesse del Re di rispettare la privacy, se la scelta di accettare o meno certe condizioni non c’è. Tutte le aziende avranno convenienza a usare le workroom di Zuckerberg se saranno le uniche sviluppate, e chi non si connette verrà tagliato fuori dal mercato. Avremo ancora una volta un ecosistema centralizzato che dialoga solo con se stesso. Istruzione, svago, lavoro e pubblicità, tutto circoscritto in un unico universo – Meta.
Uno dei modi migliori per proteggersi e combattere questo spazio monolitico è disertarlo. Parlo ai creators di contenuti, agli sviluppatori, a chiunque sappia scrivere una riga di codice: non partecipate a questo gioco. Gran parte dei proventi andrà alla piattaforma e a chiunque ci si iscriverà per darle forma non rimarranno che briciole. Fate concorrenza, sviluppate delle alternative. Nonostante il gruppo Meta sia un colosso, dai tentativi disperati di Zuckerberg emerge la necessità di collaborazione. Per questo ammicca costantemente alla comunità dei gamers, cercando di renderseli amici. Per questo sorride alle piccole e grandi imprese immaginando nuove forme di pubblicità interattiva.
In questi anni avrà il bisogno del maggiore sostegno possibile e per non vedere questo universo realizzato, basta non darglielo. E se anche riuscisse nel suo intento, in un futuro dove altri gruppi hanno scelto di lavorare alla propria visione, quello di Mark tornerebbe uno dei tanti anelli del vero Metaverso: internet. Un luogo dove già tutto si interconnette e dove ogni utente può scegliere il suo spazio. Un po’ come per le mail: che io sia iscritto a Google o a un gruppo indipendente di cui apprezzo l’etica, potrò sempre dialogare con gli altri utenti. Quello che dobbiamo cercare di supportare e ideare è – e qui rubo un termine – un Fediverso: una federazione di Metaversi. Ti piace il modello Zuckerberg? Bene, a me no, ma possiamo partecipare entrambi alla stessa riunione lavorativa. Con etiche differenti e riflessioni critiche su ciò che facciamo.
È inutile cedere al terrore dell’innovazione tecnologica, quando è essa stessa nella natura umana. Ma per non finire nella distopia di Snow Crash, abbiamo bisogno di un mondo che non resta sotto lo scacco dei franchising. E immaginare un utilizzo di questa tecnologia che non sia un rifugio di fronte alla bruttezza del mondo, ma un modo per reagirvi modificandolo.