Nelle ultime settimane la Corte Costituzionale si è pronunciata sull’ammissibilità di vari quesiti referendari bocciando quelli relativi all’eutanasia legale, alla legalizzazione della cannabis e quello riguardante la responsabilità civile dei magistrati. Saremo invece chiamati a esprimerci su altri cinque quesiti riguardanti una riforma della giustizia, in particolare sulla separazione delle carriere dei magistrati (che dovrebbero decidere fin dall’inizio, senza possibilità di modifica, se esercitare la funzione requirente o giudicante), sull’abolizione della raccolta firme attualmente prevista per la candidatura al Consiglio Superiore della Magistratura, sul sistema di valutazione dei magistrati (che in base alla proposta dovrebbe essere compiuta anche da soggetti non togati), sull’eliminazione della sanzione accessoria dell’incandidabilità prevista dalla Legge Severino e, infine, sulla limitazione dell’istituto della custodia cautelare.
Per quanto riguarda il referendum sull’eutanasia attiva si trattava, in particolare, della modifica dell’articolo 579 del Codice Penale nella parte in cui punisce l’omicidio del consenziente. La Corte ha ritenuto infatti che con tale modifica non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili. Come ha fatto sapere il comitato promotore, però, sarebbe rimasto in vigore il comma 3 dell’articolo in questione, finalizzato proprio a mantenere le tutele previste per l’omicidio di persone vulnerabili, siano esse minorenni, inferme di mente, in condizioni di deficienza psichica o di abuso da sostanze alcoliche o stupefacenti, che sarebbero ricadute ancora nelle ipotesi di omicidio doloso.
A ogni modo, senza mettere in dubbio la legittimità di tale decisione e precisando che la Consulta si muove entro limiti stringenti e per i quali rimane comunque necessario un intervento del legislatore, è impossibile negare che le aspettative di una grande parte della società civile siano rimaste disattese.
La raccolta firme aveva avuto un grande successo e riguardo al tema dell’eutanasia sono numerosi i disegni di legge presentati da anni che giacciono dimenticati dalla componente politica che non si preoccupa di avviare un dibattito serio sul tema. Lo stesso dicasi per la legalizzazione della cannabis, per cui le istanze si sono susseguite numerose, complici anche i passi in avanti fondamentali che sono stati compiuti in altri Paesi, che hanno provveduto a eliminare o almeno mitigare le politiche proibizioniste che si sono dimostrate del tutto inefficaci, così come la costruzione di un sistema sempre più fitto di norme penali. Il quesito referendario è stato bocciato poiché la Corte ha ritenuto che, nel caso di approvazione del relativo referendum, l’Italia sarebbe incorsa in rilevanti violazioni di obblighi internazionali – che costituiscono un limite insuperabile – stante la genericità con cui il quesito stesso era stato formulato, prestando il fianco alla possibilità di legalizzare anche la coltivazione di droghe pesanti.
Due dati sono però certi: da un lato l’incapacità delle istituzioni e della compagine politica di accogliere e comprendere istanze che arrivano dalla società civile e che sono oramai non più ignorabili, dall’altro il fatto che si tratti temi così importanti come dei tabù, complice anche l’influenza costante del Vaticano nel nostro Paese. Alla luce di quanto emerso, qual è allora la società che stiamo costruendo e i valori che sono alla sua base?
Possiamo dire di essere un Paese in cui le libertà e i diritti civili non sono più priorità del Parlamento, in cui si negano opportunità di vita migliore e le proprietà anche terapeutiche della cannabis, in cui si vieta a chi sta male di decidere se morire e mettere fine a sofferenze inaccettabili. E no, non si tratta di decidere di morire dopo una delusione d’amore o quando si è tristi per qualcosa – come qualcuno erroneamente ritiene – ma di preservare una dignità che si pensa di non avere più nelle proprie condizioni di vita. Di arrendersi all’idea che ciascuno possa decidere della propria esistenza senza che ciò diventi un’offesa a enti spirituali che non dovrebbero interferire in uno Stato laico.
Nonostante il valore fondamentale rappresentato dalla legge, che può accogliere istanze sociali e, allo stesso tempo, fungere da apripista per temi non ancora avvertiti come urgenti, dovremmo forse concentrarci maggiormente sul tema della giustizia. Non quella che si fa nelle aule di tribunale e neppure quella che molti invocano a gran voce mentre chiedono vendetta. Giustizia è costruzione dal basso, dalle istanze della comunità, di uno spazio in cui vivere e sentirsi al sicuro, senza che la propria sicurezza dipenda dal numero di persone in carcere. Giustizia è poter decidere del proprio corpo e della propria vita perché ci appartengono. È avvertire che le istanze espresse vengano osservate, senza utilizzare come unico strumento possibile la sanzione penale.
E se crediamo che questo non sia un mondo giusto e se sentiamo forti le ingiustizie sulla pelle dei più deboli, come se fosse la nostra, e se riteniamo di meritarci una comunità migliore, allora abbiamo il dovere di utilizzare l’indignazione di cui ci siamo riempiti la bocca nelle ultime ore nelle urne, nelle piazze, nelle strade, nelle nostre comunità, dalle più piccole alle più grandi. Perché la giustizia parte da noi.