Il primo film di Matrix è uscito alla fine degli anni Novanta. Quel decennio fu segnato dalla svolta del femminismo cyborg di Donna Haraway. Si teorizzava l’eventualità di esplorare ogni possibilità grazie al corpo neutro dell’entità cibernetica, alla sua intercessione, che avrebbe permesso alle persone di affrancarsi dal binarismo di genere. I film delle sorelle Wachowski sono intrisi di questa filosofia.
La regista Lilly Wachowski aveva dichiarato in un’intervista a Netflix che tutta la storia di Neo è imperniata sul concetto e sul desiderio di trasformazione. Un’enorme metafora queer che resiste alle logiche corporate fondate sul binarismo di genere. Non bisogna, del resto, scendere troppo a fondo per scorgere in Matrix una critica feroce del sistema economico capitalista, in cui gli esseri umani sono poco altro che “pile”, forza-lavoro che produce ricchezza per invisibili padroni e che viene, a sua volta, inconsapevolmente riprodotta attraverso l’istituzione di costrutti sociali come l’eteronormatività o la famiglia nucleare. È anche vero che il genere della SF (in cui rientra Matrix), come propone Paul B. Preciado nell’introduzione alla sua antologia di articoli Un appartamento su Urano, si presta particolarmente bene a riflessioni sulla limitatezza del binarismo.
Nello stesso testo, l’autore scrive: L’universo intero viene tagliato a metà. Tutto è testa o croce in quest’ordine di conoscenza. Siamo umani o animali. Uomini o donne. Vivi o morti. Colonizzatori o colonizzati. Organismi viventi o macchine. Siamo stati suddivisi dalla norma. Tagliati in due e costretti a rimanere da una parte dello squarcio o dall’altra. Quella che chiamiamo “soggettività” è l’unica cicatrice che, nella moltitudine di cose che avremmo potuto essere, copre la ferita di questa frattura. È su questa cicatrice che vennero fondate la proprietà privata, la famiglia e l’ereditarietà. Su questa cicatrice vengono scritti nomi e vengono dichiarate le identità di genere.
Se, però, all’affacciarsi degli anni Duemila la fluidità del cyborg (con tutta la sua gamma di identità da vestire su internet dietro un nickname) sembrava bastare per liberarci dalla gabbia del genere, lo scenario che si profila all’orizzonte dopo vent’anni è piuttosto diverso. Ogni giorno, disseminiamo una quantità mostruosa di dati su noi stessi attraverso le nostre appendici cyborg. Dati che ci incasellano, ci costringono in griglie di profilazione per le statistiche e le analisi di mercato. L’energia che forniamo alla nuova Matrix è la nostra identità. Realtà e simulazione non sono più nettamente distinguibili, il confine è sfumato, perché tutto è merce e tutto può generare profitto.
Nell’ultimo film della saga girato da Lana Wachowsky, il viaggio dentro e fuori da Matrix si compie attraverso lo specchio, non più con il telefono, e l’architetto (quella sorta di grande fratello che presiedeva il sistema della simulazione) è stato sostituito da un analista. Ora, sempre di più, veniamo spinti a guardare dentro noi stessi a particolareggiarci, a dare un nome a tutto quello che ci piace e che siamo, a separarci nettamente dagli altri e a definire, selezionare, coltivare la nostra piccola bolla d’influenza, a patto di cedere dettagli, nomi, tutto, agli algoritmi che ci mostreranno gli annunci, i filmati, i contenuti di nostro gradimento.
Secondo l’ipotesi che avanza Legacy Russell in Glitch Feminism, la dimensione cibernetica non è zona neutra e neppure libera dalla colonizzazione del capitale. Gli strumenti della rete sono diventati tentacoli di profilazione che hanno centuplicato le etichette per poi ricondurle a una determinazione binaria del tipo questo o quello. Ecco perché l’attivista ipotizza il superamento della dimensione del cyborg attraverso il glitch. Il glitch è lo sfarfallio sullo schermo mentre il programma è attivo. È un errore imprevisto e indesiderabile, un evento che, al suo verificarsi, mette in crisi il funzionamento della macchina, la destabilizza. I film delle sorelle Wachowski straripano di identità glitch, soprattutto l’ultimo.
Resurrections si distingue da tutti quanti gli altri perché è l’identità stessa del film a essere un glitch. Un film che non avrebbe dovuto esistere, un errore di sistema. Si prende gioco di se stesso, di chi guarda e perfino di chi si compiace del fine intreccio della presa in giro. La massiccia presenza glitch è certamente rappresentata dal personaggio di Bugs (il cui nome rievoca una tipologia di errore nel codice di un software), dalla reincarnazione digitale di Morpheus, in grado di hackerare corpi simulati in Matrix e di spostarsi in uno sfarfallio di pixel nella realtà di Zion, dagli avatar di Neo e Trinity, che appaiono uguali a loro stessi solamente l’uno agli occhi dell’altra. Per me, però, la più grande performance glitch di Matrix 4 è il Merovingio.
Lana Wachowski lo fa spuntare quasi dal nulla, nel corso di una confusionaria scena di lotta fra le assi di legno di una scenografia spoglia, le quinte di un teatro dove si è svolta la pantomima della resurrezione di Neo fuori dalla simulazione. Il Francese ha un aspetto molto diverso da quello azzimato sfoggiato in Reloaded: i lucidi capelli ravviati con la brillantina si sono trasformati in un groviglio grigio, il volto rasato di fresco tremola e sfugge, sporco, dietro ciuffi di barba trasandata. Gli abiti di sartoria da inappuntabile villain hanno lasciato il posto a degli stracci lisi. Se il Merovingio di Reloaded magnificava la raffinatezza dei suoni della lingua francese nel pronunciare insulti, quello di Resurrections scaglia improperi e volgarità in un inglese rotto dal forte accento.
Parodia di se stesso, il Merovingio esprime, a livello metanarrativo, l’esasperazione della regista, tornata a girare un film della saga dopo diciotto anni di volontario fermo. In questo sta la potenza della sua maschera glitch: destabilizza, attraverso lo sguardo incredulo dello spettatore, l’intera macchina dello spettacolo, ne mette in pericolo la credibilità, scardina la barriera della finzione. E, facendolo, mette in risalto il palcoscenico vuoto di una società in cui tutto è diventato riproducibile all’infinito per venire all’infinito sfruttato, in un eterno deja-vu dove le nuove tecnologie vengono messe al servizio della conservazione dei soliti vecchi meccanismi di potere binario.
Proprio come accade in Resurrections, per hackerare il sistema, il glitch deve occupare lo spazio che prova a limitarlo. Trasformarsi in esso e poi deformarne la pelle. Nel suo manifesto del glitch, Legacy Russell attribuisce grande valore alla performance, all’errore come pratica sistematica di definizione e negazione dell’identità. La performance glitch, proprio perché è profondamente e intrinsecamente legata alla dimensione spaziale, è accentuazione ed esaltazione del corpo. Il corpo non conforme per colore, peso, estetica, sesso o orientamento sessuale, disabilità. I corpi inclassificabili, ingestibili, indesiderabili guidano la rivoluzione. Nascosti, ridotti al silenzio nella vita pubblica, i corpi glitch prosperano online: dove tutti gli altri contesti falliscono, Internet resiste come spazio di aggregazione per le voci e i corpi marginalizzati. La vita cosiddetta reale li rifiuta.
Esempio di questo è, nel nostro paese, la dura resistenza che si oppone alla legge contro l’omotransfobia e l’abilismo. È la Corte Costituzionale che dichiara inammissibile il referendum sull’eutanasia. Sono i partiti che si oppongono all’istituzione dello ius soli. Su internet, invece, la collettività glitch si espande, si unisce, dialoga, lotta. Il tempo trascorso lontano dalla rete diventa tempo AFK (away from keyboard), non offline, perché la vita online non è una vita separata, ma una parte integrante dell’esperienza glitch. In rete, i corpi glitch sperimentano nuovi linguaggi, che si oppongono e resistono alla norma. È proprio in rete che il dibattito per una lingua italiana più inclusiva tocca picchi di inaudita ferocia. Le proposte di aggiungere un’opzione neutra non derivata dal maschile sovraesteso incontrano una forte opposizione, lo scherno e perfino la violenza verbale.
Negli ultimi giorni ha fatto molto discutere una petizione per fermare l’utilizzo della schwa come simbolo inclusivo. La motivazione sarebbe che l’aggiunta di questo innocente grafema fra i nostri deturperebbe irrimediabilmente l’italiano. Nel romanzo di fantascienza femminista Lingua Nativa di Suzette Haden-Elgin, uscito qualche mese fa per Del Vecchio, le donne oppresse da una società misogina inventano una lingua segreta, che dà un nome alle cose che fanno esclusivamente parte dell’esperienza femminile: è una lingua che funziona per negazione e sottrazione, una lingua che descrive la mancanza, l’assenza. Pur con i suoi limiti (nel romanzo di Elgin non compaiono donne non bianche, povere o persone non-binary), il libro spinge alla riflessione sull’importanza che ha la lingua nel dare forma alla realtà.
La rappresentazione di qualcosa, in una lingua, implica la sua esistenza. Rende impossibile non vedere il glitch davanti a noi. Citando ancora Preciado: parlare è inventare la lingua della transizione, proiettare la propria voce in una spedizione interstellare: tradurre la nostra differenza nella lingua della norma; mentre continuiamo, in segreto, ad esercitarci in uno strano gergo che la norma non comprende.
La rabbia che scatena la discussione sul simbolo schwa ha molto meno a che fare con la salute dell’italiano che non con la nostra volontà di ammettere l’inefficacia del binarismo, di accogliere la “differenza”. La forma stessa della schwa, simile a una “e” rovesciata, a una “a” deforme è glitch. Ancora, con le parole di Russell: Possiamo incarnare l’errore trovando nuovi modi di autodefinirci, rivendicando l’atto di scegliere i nostri stessi nomi. Oppure possiamo distorcere il processo di definizione, creare nuove forme attraverso l’atto di nominare e rinominare, cioè accogliendo una flessibilità poetica che rifiuta l’idea di un nome statico e definitivo.
Non bisogna, però, commettere l’errore di pensare che lo scopo del glitch sia la creazione di una nuova norma. Il glitch la rifugge per definizione. Cambia continuamente forma proprio perché è attraverso la mutazione che riesce a sfuggire al controllo. La rappresentazione, l’incisività non devono diventare opportunità per le piattaforme di profilazione di spuntare nuove caselle. L’imperativo performativo e politico del glitch deve essere sfuggire all’identità calata dall’alto. Trovare nuovi spazi da varcare come moltitudini.