Cosa rimane di Mani pulite, trent’anni dopo il 17 febbraio 1992, data chiave nel processo di smottamento che avrebbe condotto al crollo della cosiddetta Prima Repubblica? In che maniera Tangentopoli ha inciso sul modo di fare politica in Italia e sull’idea che le persone hanno – da allora – di partiti e istituzioni? Qual è il riverbero che ancora insiste nella nostra società moderna?
Sono tanti gli interrogativi e le analisi che l’inchiesta Mani pulite stimola, tuttora, nei giornalisti e negli appassionati di politica, così come sono molteplici le chiavi interpretative che si possono offrire di un accadimento che ha segnato in maniera indelebile la storia del nostro Paese, un evento ricordato, oggi, da una memoria collettiva disarticolata, quasi nevrotica, estrema, in un verso o nell’altro.
Prima di entrare nella nostra versione dei fatti, è bene ricordare – in estrema sintesi – di cosa parliamo quando affrontiamo l’argomento Mani pulite e Tangentopoli. La mega inchiesta che, di fatto, rovesciò il sistema politico-istituzionale italiano partì da un’indagine locale, in particolar modo in quel di Milano, dove Mario Chiesa (ex politico in forza al PSI) venne arrestato proprio il 17 febbraio di trent’anni fa per aver incassato una tangente da 7 milioni di lire, tracciata dal pubblico ministero Antonio Di Pietro. Il modus operandi di Chiesa, però, era in vigore già da tempo tra la politica milanese e si scoprì – ben presto – anche tra i banchi del Parlamento romano.
Il meccanismo per cui le imprese versavano agli esponenti politici le cosiddette mazzette non era l’eccezione, piuttosto la regola, tanto che era ormai talmente consolidato che non c’era più bisogno di chiedere. Ormai si sapeva bene che l’acquisizione di contratti comportava questi esborsi ed era automatico che una volta acquisito il contratto si pensasse a quantificare la somma da destinare ai partiti.
Scaricato dai suoi, Chiesa cominciò a collaborare e, presto, le indagini raggiunsero i piani più alti delle istituzioni. Mani pulite era già nel vivo. In un suo intervento in Aula, del 3 luglio 1992, l’uomo simbolo di Tangentopoli, Bettino Craxi, dichiarò – di fatto – la fine della Prima Repubblica: «…buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. […] Non credo che ci sia nessuno in quest’aula che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro».
In Italia, al contrario di qualunque altro Paese europeo e mondiale, la Storia perde della sua natura eterna, si scopre plastica, multiforme, persino transitoria. Lo raccontano le guerre mondiali, il modo in cui la Germania ha bandito ogni forma di rigurgito nazifascista e Roma ne rivendica ancora ipotetici meriti, così – oggi – i fatti di Tangentopoli si raccontano in chiave revisionista, quasi riabilitativa di avvenimenti e persone, motivo per cui i segni sono ancora visibili.
Nel nostro Paese, la Storia non lascia segni, e Mani pulite è uno di quei processi politici e storici con i quali non abbiamo mai fatto davvero i conti. Il sistema di potere che si era allargato come una metastasi in ogni ufficio dello Stato – dal più grande al più piccolo – non è mai stato sradicato dall’essenza degli italiani, così la più grande operazione di corruzione è stata, via via, ridimensionata a un solo atteggiamento furbesco, quasi goliardico, proprio della politica. La realtà, invece, racconta di uno stigma culturale da cui non riusciamo a sottrarci.
Neppure le monetine tirate a Craxi il 30 aprile del 1993 hanno segnato uno spartiacque tra il prima e un dopo che non è mai davvero arrivato, e il sistema delle scorciatoie, delle amicizie, delle raccomandazioni è rimasto l’unico efficace a far muovere appalti e progredire carriere, e non solo a grandi livelli.
La prima cosa che salta alla mente, ripensando a quei giorni, e guardandoci oggi, è l’occasione sprecata di una rivoluzione che fosse innanzitutto civile, civica, che determinasse l’agire della gente comune e, di conseguenza, che pretendesse lo stesso dai propri rappresentanti. I partiti che si dimostrarono l’antitesi della democrazia non hanno mai avuto l’ardore di farsene presidio, garanti della Costituzione, neppure le versioni più giovani, come il MoVimento 5 Stelle, assorbito dalle logiche buie della politica non appena varcate le soglie delle sedi istituzionali.
Non a caso, il sentire comune vede il sistema di corruzione più diffuso oggi che ai tempi di Mani pulite, con i nuovi interpreti abili non solo a eludere leggi, persino a convincere il proprio pubblico delle loro azioni con fare da stadio, puntando su un tifo di stampo calcistico, quello che chiamiamo populismo. Proprio l’estendersi di queste condotte a ogni aspetto della vita pubblica e privata ha reso tale condotta la prassi, ormai estesa non soltanto a grandi aziende e partiti, ma anche ai mercati, alla società, motivo per cui di Tangentopoli non è rimasta che una traccia utile a documentari e serie TV.
Nonostante le elezioni successive a quel terremoto giudiziario (nel 1994) determinarono il rinnovamento del 70% della classe politica del Paese, Mani pulite non ha avuto lo stesso effetto da quel momento in avanti, e i nuovi volti di allora hanno adoperato le stesse dinamiche dei loro predecessori per restare ancorati a poltrone e potere per i trent’anni a venire, tantomeno le persone ne hanno preteso le teste una volta disattese le promesse di rinnovamento.
Così, oggi, trent’anni dopo, i volti di ieri sono gli stessi che affollano ancora sedie e TG, la condotta tossica della politica altro non ha fatto che affinare la tecnica, convincendo chi avrebbe dovuto determinarne le sorti di mali necessari, come nell’evolversi (involversi) delle politiche sociali e del lavoro. Così, oggi, trent’anni dopo, l’Italia fa i conti con la sua storia semplicemente ignorandone l’ombra.