Sul Messager de l’Assemblée, nel 1851, Charles Baudelaire scrive Del vino e dell’hashish, illustrando i due temi in maniera estremamente limpida, seppur per approfondire i loro effetti di alterazione. Moderne riflessioni confidenziali sono dedicate alla sua schiera di lettori, i quali prestano occhi, orecchie e palato alla provocatoria ma onesta esposizione dell’autore sulla grandiosa esperienza estetica che deriva dall’assunzione di alcol e droghe e che conduce, come in una corsia preferenziale della vita, all’accesso diretto per la creatività. Quando grandiosa, quando mortificante.
Prima di prestarsi a delineare gli inconvenienti dell’hashish, per la seconda parte della sua analisi, nel confronto di questi due mezzi tramite i quali l’uomo raziocinante esaspera le proprie volontà e personalità e si fa una sorta di divinità, una sorta di altra persona, Baudelaire lascia trapelare quale sia il suo preferito. Basti pensare al sol fatto che l’hashish è sostanza antisociale, mentre il vino non può essere più umano e condiviso. Al contrario del secondo, infatti, la prima non consola, non forgia guerrieri, né popoli.
Nella descrizione progressiva di tutte le fasi e dei possibili imprevisti nei quali l’uomo che ne fa uso può incappare, il poeta raccomanda, a chiunque sia tentato di provare, di sottoporsi alla sua azione solo in luoghi e situazioni favorevoli e di dotarsi di un bell’appartamento o un gradevole paesaggio, una mente sgombra da pensieri e, soprattutto, alcuni compagni dallo stesso livello intellettivo; e anche un po’ di musica, se possibile. Esperienza invece non raccomandabile a chi ha l’animo immerso nello spleen (stato di malinconia, noia e disagio esistenziale proprio della natura sensibile del poeta) o chi ha una cambiale in scadenza da saldare.
Mentre le membra iniziano a cedere rifiutandosi di rispondere alla volontà, tutto il corpo è pervaso da un senso di benevolenza, languida gaiezza, di disagio lieto, tanto che, via via che la droga si fa strada nell’organismo, si arriverà a comunicare con un semplice sguardo. La seconda fase si presenta con una sensazione di freddo alle estremità e il diffondersi di un’improvvisa debolezza; le pupille tenderanno a dilatarsi, tirati da una parte all’altra da un’estasi implacabile. Sospiri rochi e profondi vi sfuggiranno dal petto, quasi la vostra antica natura fosse impossibilitata a supportare la nuova. I sensi li avvertirete straordinariamente affinati e acuti.
Una sola domanda potrà turbare la mente: come potrò uscire da qui? Questo stato di fantasia sembrerà protrarsi in un tempo infinito interrotto da un momento di lucidità nel quale l’occhio vi cadrà sulla pendola e vi accorgerete che quell’eternità è durata solo un minuto. Arriveranno altre correnti a trascinare via gli uomini che hanno assunto l’hashish, altrettanto interminabili, almeno solo in percezione, e questi uomini ne saranno compiaciuti. Mentre le misure di tempo e dell’essere sono stravolte dalla veemenza delle sensazioni, l’appetito verrà straordinariamente stimolato e si farà fatica a spostare una forchetta. Sono i momenti che precedono la terza fase e quella nuova crisi seguita da rinnovato malessere e vertiginosa ebrezza. È ciò che gli orientali definiscono kief, ovvero la felicità assoluta.
Saggio, di sicuro, non è lasciare un uomo in questo stato sulle rive di un corso d’acqua, avvisa Baudelaire ma, allo stesso tempo, garantisce che è possibile prenderne senza timore, che non c’è pericolo di morte, che gli organi vitali non subiscono danni gravi, almeno per quanto è dato sapere fino ad oggi. È la felicità che qui assume le sembianze di un tocco di marmellata, così come si presenta l’hashish, e che, a seconda dei casi, potrà raccontare, agli uomini che seduce, poemi infiniti o spaventose tragedie. Oltre a un accenno verso gli effetti più curiosi che seguono all’assunzione della droga presa in esame, come il timore folle di affliggere chicchessia, di provocare inquietudine all’altro, l’autore ci tiene anche a descriverne la provenienza orientale e il periodo di raccolta, quando esso si trova a fioritura, essendo il fiore l’unica parte della pianta a essere usata nei preparati. Passando anche per l’Egitto, Baudelaire parte dalla mietitura della canapa che sembra già determinare, negli stessi mietitori, uomini o donne che siano, strani fenomeni.
Ma alla fine di questo viaggio straordinario che succede? Che ne sarà dell’uomo impavido il giorno dopo? Tutto sarà sbigottimento misto a leggerezza di spirito, grande languore e gambe molli; una meritata punizione, rimprovera Baudelaire, per l’energia dissipata dai vostri terminali nervosi, di cui vi siete avvalsi a piene mani, per dare espressione ai mille aspetti della vostra personalità, che adesso faticate a ricompattare. Si tratta di un terribile domani nel quale gli organi e i nervi sono spossati, si avrà voglia di piangere e nessuna forza a svolgere qualsiasi attività. La vostra laida natura, spoglia dello splendore della veglia, somiglierà ai malconci avanzi di una festa.
Il poeta la condanna dunque quale sostanza del diavolo, enumerando le sue caratteristiche di distruzione della volontà, tra le quali quella di essere un’arma per propositi suicidi. Questa, comunemente al vino, determina l’eccessiva trasformazione dell’uomo in poesia, ma se il vino arricchisce il sangue, facilita la digestione e fortifica la muscolatura, l’hashish blocca le funzioni digestive indebolendo tutto il corpo. Mentre il vino rende buoni e socievoli, l’hashish isola. L’uno è, per così dire, operoso, l’altro essenzialmente indolente. A che pro infatti, faticare, scrivere, fare una qualsiasi cosa, quando si può raggiungere il paradiso con poco sforzo?
Dal paese incantato nel quale l’hashish catapulta, terra simile a quel sogno notturno che tutti conosciamo e che gli antichi reputavano divino, ma che differisce da esso perché conserva nella veglia la particolarità dell’individuo, usciamo con la bocca secca e la sensazione di non volerci ritornare. È ora di lasciare da parte tutti quegli artificiosi miracoli, va per concludere Baudelaire. Quell’uomo schiavo di oppio e hashish che ha saputo trovare la forza necessaria a liberarsi, appare allo sguardo del poeta come un evaso in fuga che gli ispira comunque più ammirazione di colui che, per eccesso di prudenza, non è mai caduto in errore.
Ma si può forse sostenere che goda di ottima salute un uomo confinato alla sola sfera onirica e reso incapace di compiere una qualsiasi azione reale, se anche le sue carni permangono in condizioni eccellenti? Balzac, nominato più volte dal poeta, sosteneva che per l’uomo non ci fossero infamia e sofferenza maggiori che venir meno nell’esercizio della propria volontà. Lo stesso Balzac che, conteso da editori che, per ingraziarselo, gli inviavano, insieme al denaro, una cassa di vini francesi, fu osservato da Baudelaire durante un’assemblea nella quale si discuteva dei prodigiosi effetti dell’hashish. Il nostro autore fu colpito dalla vivace attenzione dell’altro verso l’ascolto dell’argomento trattato. Al congresso gli venne offerto del dawamesk (cannabis proveniente dall’Algeria e alcuni Paesi arabi) e Balzac lo esaminò con dedizione, tradendo sul suo viso il conflitto interno scatenato dalla curiosità di provarlo e il rifiuto allo stesso, perché avrebbe compromesso vergognosamente la propria volontà. Baudelaire lo osservò restituire senza assaggiare, registrando nel contempo la vittoria della dignità sul volto di quel teorico della volontà, che rinunciò a marchiarsi di infamia. Baudelaire, al termine del suo racconto, osserva come questo marchio d’infamia possa riguardare anche tutte le invenzioni della modernità, che limitano la libertà umana e il dolore.
Per che cosa, allora, l’uomo si vende al diavolo al prezzo della libertà di intendere e volere? Per la rêverie naturalmente, quella terra promessa dell’immaginazione fantastica, della fantasticheria, in cui lo spirito si abbandona a ricordi e immagini, ammaliato dalla speranza di poter godere qui di una libertà simile a quella del sogno (rêve) ma nella veglia appunto, elevandosi a essere un essere infinito seppure così individuale. Vale quindi la pena barare acquisendo, con l’artificio, genio e felicità? Ne vale davvero la pena anche se, nella sua natura di gioia solitaria, l’hashish spinge l’individuo a contemplare continuamente se stesso come un Narciso verso l’abisso? Anche se rende l’individuo inutile alla sua specie, perché non riesce nemmeno, alla fine, ad approfittare delle straordinarie capacità d’immaginazione raggiunte con le droghe? Non sarà mica tutta una falsa promessa? Che l’hashish non riveli niente che l’individuo non sappia già?
Mentre noi, poeti e filosofi che abbiamo provveduto a rinnovare la nostra anima con il costante lavoro e la contemplazione; con l’assiduo esercizio della volontà e la costante nobiltà dell’intenzione, abbiamo edificato per noi un regno di rara bellezza. Fiduciosi nel detto che la fede smuove le montagne, abbiamo compiuto il solo miracolo di cui Dio ci abbia dato licenza! E cioè esistere, nonostante il reale, per il reale, il quale di certo non manca di sorprendere, anche nella sua originaria grandezza.