Giovedì è stato il libro del giorno per Fahrenheit. Oggi, al telefono con chi scrive, Gaia Giovagnoli prende fiato, beve un goccio d’acqua: «Tranquilla, non siamo su Radio 3». Risponde con la voce che vibra dell’emozione dell’esordio, un tono che, però, si fa presto sicuro dei temi che maneggia con cura e consapevolezza. Cos’hai nel sangue è il suo primo romanzo.
Un libro, quello edito da nottetempo, che è un microcosmo di ambientazioni fantastiche, distorsioni e riti magici, senza perdere, però, mai contatto con la realtà, che analizza nelle sue forme più crude. Così, Gaia Giovagnoli offre il palcoscenico del suo testo alla donna, alla madre, immagine sacra e diabolica, entità estremizzata in ogni suo aspetto, accogliente e perturbante al contempo. L’uomo, nel bosco di Coragrotta, dove si ambienta la storia, è privato della sua forza ed è costretto a sottostare a un sistema senza possibilità di determinare il proprio destino.
È la genealogia del dolore, un trauma che si tramanda di madre in figlia, un passato a cui non sembra esserci possibilità di sfuggire, un abbraccio che può dare asfissia. Cos’hai nel sangue si muove sui binari del folk-horror, la lingua dell’autrice è diretta, senza fronzoli, Giovagnoli non adopera alcun elemento superfluo, tutto è funzionale alla trama, allo scopo.
In Cos’hai nel sangue è centrale il rapporto madre-figlia. Però, al contrario di quanto ci si aspetterebbe da una relazione di questo tipo, le due donne non si uniscono nell’amore, bensì nel dolore. È corretto dire che sembra non sappiano rapportarsi altrimenti che facendosi del male?
«Sì, assolutamente, anche perché parte del nucleo fondante del romanzo ha proprio a che vedere con queste relazioni che oggi si chiamano disfunzionali, le relazioni tossiche, in particolar modo nella famiglia. Una delle riflessioni che ha accompagnato la prima parte del libro si lega a quelle che, fino a pochi anni fa, si conoscevano come maledizioni familiari, da non pensare come a un anatema lanciato da una strega cattiva – anche se nel testo compare parzialmente anche questo livello – ma intese come una persona non nasce mai disgiunta da un contesto. Si tratta di un modello di riferimento che, a un certo punto, si deve incarnare, e non sempre i modelli sono funzionali, positivi. Il rapporto madre-figlia di Cos’hai nel sangue assume questo tipo di sfumature. Sono entrambe donne, hanno delle problematiche, una addirittura – la madre – è causa dei traumi della figlia, o almeno così Caterina ci dà a credere (nel libro, è Caterina a parlare). La riflessione verte sull’incontro nel dolore, comune a molte dimensioni famigliari, da cui non si può uscire, se non con la rottura di una maledizione che spesso corrisponde all’autocoscienza. Ognuno è frutto di storie, in questo caso la madre fa parte di un contesto, ha risposto di quel contesto incarnandolo a sua volta e non può fare altro, in una sorta di genealogia del dolore, di passare traumaticamente parlando quel tipo di tensione alla figlia».
Il ruolo della madre oltre a essere centrale è – si può dire? – esasperato. Alle madri si associano immagini sacre, talvolta diaboliche, hanno attributi magici. Come mai?
«La madre, intesa come concetto, è sia accogliente sia perturbante. Freud parlava di heimlich e unheimlich, due parole che – in un certo senso – coincidono. Heimlich significa, in tedesco, qualcosa di estremamente accogliente e familiare, e il concetto ha a che fare con l’accoglienza materna. Freud, studiandone l’etimologia, ha scoperto che al suo interno possiede anche un significato contrario, qualcosa di unheimlich, perturbante, disturbante. La maternità, dal mio punto di vista, ha entrambi questi piani. Una donna che accoglie dentro di sé una vita può essere una rappresentazione estremamente potente, positivamente parlando, il ruolo di creazione per eccellenza. Spesso, però, non si considera che questo comporta anche una serie di questioni molto poco poetiche, come la trasformazione del corpo, il fatto di vedersi un’identità trasformata, aggiungere un attributo – madre, appunto – che non si aveva. È un concetto, questo di dover cedere il proprio corpo a qualcuno, che se una persona non è pronta ad affrontare è particolarmente disturbante ed è poco discusso, o perlomeno non con la sincerità che dovrebbe avere. Noi abbiamo quest’immagine di madre sempre positiva, invece, spesso, è nella madre che c’è quel luogo di oppressione. Come aveva notato Freud, nell’abbraccio ci può essere anche una sorta di asfissia. Tutte le madri del mio libro, del paese di Coragrotta, sono così, personaggi parecchio duri, apatici. Ho voluto togliere alla maternità il suo aspetto più diffuso».
A proposito di ruoli, in questo caso mi interessa – più in generale – la figura della donna. Il tuo romanzo ribalta quelle che sono le convenzioni della società occidentale, ha elementi fantastici ma resta saldamente ancorato alla realtà. La nostra è una collettività mossa da logiche patriarcali, a Coragrotta domina il matriarcato, le donne hanno carattere gotico, mistico. È una critica, oppure, cosa volevi rappresentare?
«Devo essere sincera, tutte le questioni di tipo tematico le sto sviluppando ora, a posteriori, nel senso che – come in questo caso con il rapporto di genere – sono cose che mi interessava trattare ma che non avevo programmato a monte. La questione di genere è una suggestione che mi si è generata, probabilmente, anche perché in linea con i miei studi, essendo io laureata in antropologia. Il concetto di genere è molto affascinante. Le donne sono dotate, in questa società matriarcale e, in parte, ginecocratica, di poteri, di questa forza quasi inquietante, quasi violenta, attributi che vengono associati solitamente al maschio nella definizione concettuale che abbiamo in Occidente. Dall’altra parte, l’uomo è invece privato dell’attributo principale: della mente, della ragione. Deve sottostare a un sistema senza dover dimostrare se accetta o meno di farne parte».
A mio parere, anche questo non è tanto distante dalla realtà. Penso al lavoro, alle questioni familiari, al sesso. C’è comunque una sorta di subordinazione al sistema…
«Sì, c’è aderenza. Riflettendoci, quello che ho messo in scena voleva essere – forse – un ribaltamento, ma guardandolo da vicino non ho fatto altro che portare alle estreme conseguenze i tratti del maschile quanto del femminile. E il femminile portato alle estreme conseguenze vuol dire donna con poteri – cosa che in parte del femminismo attuale è abbastanza insistita –, che non vale nulla se non fa figli, che – se ci pensi – è un tratto piuttosto insistito nella concezione che ne abbiamo. Dall’altra parte, l’uomo che non ha diritto, nella nostra società, a mostrare i propri sentimenti, come i coragrottesi, che non può mostrarsi per quello che è e deve sottostare ai suoi compiti senza fiatare».
Entriamo a Coragotta, un bosco quasi grottesco, che ribalta i ruoli, dove la maternità è estremizzata, c’è promiscuità. Che luogo è?
«Coragrotta è un luogo isolato, nel senso che è un luogo sacro, staccato rispetto al quotidiano, o perlomeno in ipotesi lo è. Risponde un po’ a degli stilemi che si hanno nel folk-horror, è questo posto altro in cui succedono cose altre, che nella civiltà non potrebbero succedere. Coragrotta è un nucleo pulsante, cuore di tradizioni e di usanze anche più genuine di quanto non appaiano alcune esperienze che Caterina vive in città. È un bosco parlante, c’è questa atmosfera ombrosa anche quando è in piena luce, sembra sempre ci sia qualcosa oltre la natura o che la natura stessa sia altro rispetto a come si mostra. Ho voluto utilizzare quelle che sono, nell’immaginario collettivo, le figure classiche, il bosco, le streghe, il lupo, eccetera, perché permettono delle scorciatoie semantiche, sono simboli ricchi di significato. Nella storia della letteratura mondiale, questi simboli si sono caricati di racconti, di questioni che null’altro quanto un bosco potrebbe rendere. Per alcune civiltà, nel bosco si compie il rito di iniziazione, è il luogo in cui una persona si reca per cambiare forma o per apprendere qualcosa, e Coragrotta è l’estensione di questo concetto, è il luogo in cui Caterina cambia, in cui tante cose mutano e hanno una doppia natura».
In Coragrotta ho riscontrato un altro elemento che assume un ruolo determinante: il passato. Un passato maledetto, a cui non si può sfuggire. Che funzione assume per la vicenda e per la protagonista?
«In realtà il tempo, non solo il passato, in questo romanzo è un concetto assai complesso, nel senso che sembra quasi che Caterina – nonostante racconti al presente – sia sempre richiamata come un magnete ad altri livelli temporali. C’è il passato e ci saranno flash del futuro. È come se nel tempo di Coragrotta, nel tempo di Caterina, ci fosse una sorta di bandolo temporale in cui tutte le cose avvengono contemporaneamente, sia quelle di ieri che quelle di oggi, che di domani. È questo tempo sospeso, questo tempo denso, che somiglia molto al tempo del magico, del rituale, in cui le cose possono sempre avvenire e, contemporaneamente, sono già state scritte. Sicuramente, il passato è un fardello molto pesante, soprattutto se si considera – come dicevamo – la questione della maledizione familiare, cioè un passato che, in un certo senso, scrive in maniera violenta il presente e sembra caratterizzare il futuro. Però, dal mio punto di vista, è un passato sempre modificabile. Forse non traspare nel libro, ma lo penso io come persona: tutto può essere messo in discussione. Certo i fatti non possono cambiare, ma può cambiare la visione degli eventi di ieri e, di conseguenza, muta anche il modo in cui si vive il passato stesso e, per effetto, anche il presente».
Io trovo che nel romanzo questo aspetto traspaia eccome, perché – senza fare spoiler – la protagonista cambia il suo destino proprio tramite il rapporto con il passato. Quindi mi ritrovo nelle tue parole.
Un’altra critica che muovi alla società è al modo in cui approccia alla malattia, in particolar modo alle patologie mentali. Tu come la pensi a proposito?
«Confesso di essere un po’ deformata professionalmente a questo argomento, le mie riflessioni a proposito sono intense per tale motivo. Jodorowsky diceva che alla radice di ogni malattia c’è il divieto di fare ciò che vorremmo fare o l’ordine di fare qualcosa che non vorremmo. Quindi, la guarigione, secondo lui, richiede una disobbedienza, è un modo di mostrare agli altri che c’è qualcosa che non va. La malattia mentale è un tema centrale del romanzo. Mi interessano molto quelle che vengono chiamate malattie sociali. Nella nostra cultura, quando c’è uno squilibrio di potere, quando ci sono delle parti affrante, a cui viene tolto potere simbolico, economico, spesso le persone reagiscono incarnando un disagio, reagiscono provando a utilizzare un lessico che gli altri possano comprendere. Nella nostra cultura, questo disagio assume i contorni della malattia. Viene dichiarato come malattia e viene trattato come tale, ma non è sempre stato così.
Di fronte a squilibri di potere, ad esempio, cito Santa Caterina da Siena. In altri momenti storici, quando c’era uno squilibrio di potere, o quando si toglieva la possibilità simbolica di autodeterminarsi, come nel suo contesto, le persone potevano reagire mostrando un lessico differente. Nel suo caso, sempre incorporandolo, era un lessico religioso. Santa Caterina cominciò evitando di mangiare la carne, poi altri alimenti, si tagliò completamente i capelli. Sul proprio corpo cominciò a fare dei segni di violenza e grazie a quello fu considerata mistica, grazie a quella che oggi, con il nostro sguardo, chiamiamo malattia mentale. Caterina probabilmente soffriva di un disturbo del comportamento alimentare, non sappiamo di quale genere. Al tempo, però, si parlava di misticismo e lei utilizzava il proprio corpo come luogo di un discorso. In un certo senso, Santa Caterina fu ascoltata perché mostrò i segni della propria fede sul suo corpo e grazie a quei segni è stata inclusa in una società principalmente di uomini.
La malattia mentale spesso fa questo, mostra attraverso un linguaggio, che è un linguaggio biomedico, quello che è un disagio culturale o familiare e così facendo vuole far vedere che c’è qualcosa che non va. Non a caso tutti i disagi di tipo mentale vengono risolti con la collettività, con il riconoscimento, in una dimensione gruppale, che è il concetto della psicanalisi. In Salento, dove io mi sono trasferita, si organizzavano delle tarantate, in cui la tarantata si sfogava tra i suoni dei tamburelli e allora la guarigione era avvenuta. Ecco, il discorso delle malattie mentali è molto complesso, ma mi affascina il concetto che sia sbagliato pensare a queste come un problema individuale, non è una cosa che riguarda solo la persona e spesso questa è una cosa che noi dimentichiamo e sembra che solo con lo sforzo del singolo debba risolversi».
Per quel che può valere, a mio parere hai dato una risposta meravigliosa. Mi hai dato conferma che, come scrivevo in apertura, nulla è a caso in questo romanzo e, ora, nelle tue parole.
Ti faccio un’ultima domanda. Cos’hai nel sangue è il tuo primo romanzo ed è forse per questo che ti somiglia molto. C’è il riassunto dei tuoi studi, l’antropologia, ma anche delle tue passioni, la poesia e queste ambientazioni gotiche. Chi è Gaia Giovagnoli?
«L’autrice di questo romanzo è una persona che, come tante, scrive da sempre. Come molti ho trovato nella scrittura un modo di vedere e costruire la realtà. Sono passata dalla poesia, ho pubblicato una piccola raccolta. I miei interessi, ovviamente, traspaiono e permeano la storia, però mi piace pensare alle cose che scrivo come un qualcosa che deve parlare al di là di me. L’idea del gruppo, di scrittura come qualcosa che sia interpretabile, un contenitore in cui chiunque può riflettere e riflettersi, interpretare. Mi viene da dirti che mi occupo di tarocchi, per passione e non, sono appassionata di magia popolare italiana. Credo che soprattuto negli esordi le persone vogliano buttare tutto quello che pensano sul mondo, una febbre di affidare a un libro la libertà di dire ciò che si pensa».