Non c’è nulla da esser felici della rielezione di Sergio Mattarella, nulla per cui essere grati ai partiti e ai loro rappresentanti – nessuno escluso – tantomeno all’ex e neo Presidente. La conferma della prima carica dello Stato è, infatti, il risultato della peggiore politica che abbia mai governato il Paese dal dopoguerra, un manipolo di incapaci, opportunisti e bugiardi che mai, dall’istituzione della Repubblica, aveva affollato in tal modo i banchi del Parlamento.
La decisione dei partiti di chiedere a Mattarella la disponibilità a un secondo mandato si è formata tra la sera di venerdì e il pomeriggio di sabato, dopo aver mostrato al Paese – qualora ce ne fosse stato ancora bisogno – tutta la mediocrità di cui questi ultimi, con i loro uomini, sono capaci. Tra nomi illustri bruciati sull’altare della propria tracotanza – come ci si trovasse d’estate, cocktail alla mano, a un Papeete qualsiasi –, leadership delegittimate e tentativi di nuovi matrimoni e ritorni di fiamma, la soluzione del caso ha il volto dell’inettitudine di cui le forze politiche sono pregne. Altro che governo dei migliori.
Dall’improbabile mercato delle vacche installato per portare Berlusconi al Quirinale, passando per la vergognosa figura degli oltre sessanta voti mancanti in favore di Casellati, fino alla rielezione di Mattarella, chi esce peggio dalla votazione di sabato è la coalizione di centrodestra con Matteo Salvini al comando. Accantonata l’idea di vedere l’ex Cavaliere sul trono, il numero uno del Carroccio si è reso ridicolo di fronte agli elettori e ai suoi stessi colleghi di partito. Fa quasi tenerezza guardarlo oggi, girare di televisione in televisione rivendicando l’iniziativa – fallita – di insediare una donna al posto di Sergio II, cercando crisi energetiche e sbarchi clandestini a cui addossare la colpa della sua totale incapacità a determinare qualsiasi cosa non sia la playlist dell’ormai celebre lido romagnolo.
Ben altra storia per Giorgia Meloni, ormai pronta a completare lo scacco matto nei confronti dell’amico-rivale in camicia verde. La leader di FdI ha, dapprima, assistito al disgregarsi della coalizione alla conta per Casellati (con i suoi unici a votare compatti), poi ha registrato il tentativo di Matteo di ritornare dal suo vecchio amore, l’ex Premier Conte, per rinsaldare l’antica alleanza; infine, si è tolta la soddisfazione di vedersi accordate più preferenze di quante lei stessa non disponesse all’ultima chiamata in Aula. Insomma, il centrodestra è spaccato, Salvini conta ormai come il due di coppe quando briscola è bastoni e, se ci sarà un futuro per la coalizione, non potrà non prevedere io sono Giorgia a guidarla.
La disamina sul centrodestra che tanto millanta unità e – come appena descritto –, invece, vale soltanto quanto le fesserie propagandistiche che è in grado di inventare su poveri e disperati dalla pelle scura, consente di guardare in casa MoVimento 5 Stelle con la stessa aria beffarda, quella che da bambini ci si disegna sul volto quando tocca a noi esclamare te l’avevo detto.
Tralasciando il tentativo che sa di disperazione di chiamare Belloni a prendere il posto di Mattarella, il MoVimento si è barcamenato tra liti interne e tradimenti degni della migliore stagione di Beautiful. Di Maio, sornione, ha adottato lo stile studente all’ultimo banco nel giorno dell’interrogazione ogni qual volta la palla è finita nel campo dei 5 Stelle. Il Ministro degli Esteri ha atteso le mosse del professore, Giuseppe Conte, e quando l’ha scoperto in sala docenti abbracciato a Salvini, mentre ricordavano quanto bene erano stati insieme, ha tuonato alla stampa: «Alcune leadership hanno fallito».
«Se Di Maio ha delle posizioni le chiarirà, perché lui era in cabina di regia. Chiarirà i suoi comportamenti», ha replicato l’ex Premier, beccato dai paparazzi mentre tentava di ricucire con quello stesso alleato che si era divertito a bullizzare dallo scranno della Camera al termine del Conte I. Certi amori non finiscono… e a chi aveva creduto che i pentastellati fossero l’alba di una nuova politica non possiamo che rispondere come sopra.
Insomma, un’intera settimana per lasciare tutto com’era prima, o quasi. Già, perché gli equilibri, nel governo, ora rischiano di cambiare e il Premier Draghi non avrà nulla da perdere nel dialogo con le parti, semmai qualche sassolino da togliersi dalle scarpe. L’uomo che tutti lo vogliono ma nessuno se lo piglia, fallito l’assalto al Quirinale e alla trasformazione dell’Italia in Repubblica Presidenziale, potrà ora tenere in tensione quei gruppi usciti malconci dalla partita di sabato scorso. La Draghicrazia potrebbe aver acquisito il lasciapassare definitivo a fare del Paese ciò che l’ex BCE vuole comandare. L’Europa applaude contenta.
Ed eccoci, infine, a rovinare la festa anche al Presidente rieletto Mattarella. Con la sua conferma, quella del doppio mandato diventa una prassi pericolosa – oltre che scorretta di fronte alla Costituzione –, un protocollo da cui lo stesso Re Sergio aveva dichiarato di volersi tenere alla larga, prima di cedere alle lusinghe della corona e all’inconsistenza di un esecutivo che lui stesso ha contribuito a creare, quando nel 2018 acconsentì tre mesi di trattative e alleanze al limite della decenza tra 5 Stelle e Lega.
Forse il senso di responsabilità a cui il Presidente dice di essersi appellato nell’accettare il secondo giro sul colle più alto di Roma è, in realtà, un senso di colpa, il pentimento per il Conte I o forse per il Governo Draghi, instaurato in piena emergenza sanitaria per consentire ai partiti di spartirsi i fondi europei, per fare tutti contenti; per i i decreti sicurezza a cui aveva apposto la firma; per le scene di questi giorni di studenti pestati dalla polizia mentre la farsa della sua rielezione andava in onda a reti unificate, senza che nessuno dei suoi Ministri pronunciasse alcunché in loro difesa; per un PNRR che a quei ragazzi non concede che l’ennesimo debito.
La politica del meno peggio, in Italia, è ciò che ha consentito al peggio di salire a galla. Per questo motivo, nella rielezione di Mattarella non troviamo nulla da festeggiare.