Come ben sappiamo, i Golden Globe, gli ambiti riconoscimenti cinematografici e televisivi statunitensi, fanno un po’ da anticamera degli Oscar, sebbene gli Academy Awards potrebbero poi confermare o ribaltare il risultato. Quest’anno c’è stata una rivoluzione, merito senz’altro di un’importante presa di coscienza e, a sorpresa, la cerimonia non è stata trasmessa dalla storica emittente NBC ma tramite una live online. Prima di addentrarci in questa questione, però, conosciamo meglio i vincitori.
Il potere del cane di Jane Campion (attualmente su Netflix) trionfa per miglior film drammatico, miglior regia – già premiata a Venezia – e miglior attore non protagonista a Kodi Smit-McPhee. Un’interessante tripletta per un film dal taglio western ma decisamente oltre, con protagonista un Benedict Cumberbatch in ottima forma. Ambientato negli anni Venti tra le praterie del Montana, narra le vicende di due fratelli cowboy e le ripercussioni a seguito del matrimonio tra George (Jesse Plemons) e Rose (Kirsten Dunst, anche lei candidata come miglior attrice non protagonista). Già vincitrice di una Palma d’Oro nel 1983 con Lezioni di piano, la Campion torna a sorprendere grazie a una pellicola avvincente, maestosa, attuale, dominando su prodotti come Belfast di Kenneth Branagh o Dune di Denis Villeneuve, il quale, onestamente, pareva essere il favorito.
Ma Cumberbatch, in compagnia di Denzel Washington (Macbeth), Mahershala Ali (Swan Song) e Javier Bardem (A proposito dei Ricardo), si vede sfuggire il premio come miglior attore in favore di un altrettanto straordinario Will Smith in Una famiglia vincente – King Richard. Il suo Richard Williams, padre, coach e manager delle iconiche sorelle Venus e Serena, ha davvero convinto ed emozionato, in un film firmato Marcus Green che pone l’accento, più che sul tennis, sull’amore familiare e la determinazione.
Miglior attrice in un film drammatico va invece a Nicole Kidman, la quale scavalca Jessica Chastain (Gli occhi di Tammy Faye), Olivia Colman (The Lost Daughter) e Kristen Stewart (Spencer). Tra le candidature c’era anche Lady Gaga con la sua Patrizia Reggiani (House of Gucci) ma non regge assolutamente il confronto con le altre star.
West Side Story di Steven Spielberg è il miglior film commedia o musicale e Rachel Zegler e Ariana DeBose sono rispettivamente miglior attrice protagonista e non protagonista. Un sensazionale adattamento del noto musical di Leonard Bernstein, Stephen Sondheim e Arthur Laurents, tutt’oggi in sala, che consigliamo di non perdervi se volete scoprire cosa significa riproporre al meglio una delle pietre miliari di Broadway.
Un po’ ci dispiace per Don’t Look Up, regia di Adam McKay, che non si aggiudica nessuna delle sue quattro candidature, compresa la sceneggiatura – a nostro avviso di grande livello – vinta bensì da Branagh. Il motivo può essere forse intuibile: il film, sebbene abbia sbaragliato, non è stato tanto apprezzato negli Stati Uniti, quasi certamente a causa della pesante critica che muove alla società statunitense. Un vero peccato, soprattutto per il duo DiCaprio-Lawrence.
Andrew Garfield ottiene il premio come miglior attore nel musical distribuito da Netflix Tick, Tick… Boom!, dove interpreta un aspirante compositore di musical che si ritrova a fare i conti con la paura di non riuscire a realizzare in tempo i propri sogni.
Chi resta altresì a mani vuote è la nostra Italia. Niente per Luca, sorpassato da Encanto come miglior film d’animazione, e per È stata la mano di Dio, l’intima e commovente autobiografia di Paolo Sorrentino. A sconfiggerla è Drive My Car, pellicola giapponese di Ryūsuke Hamaguchi, già premiata a Cannes per la sceneggiatura. Migliore canzone originale va a No Time to Die di Billie Eilish e Finneas O’Connell (No Time to Die), mentre la miglior colonna sonora non poteva che essere quella di Hans Zimmer in Dune, semplicemente epica.
Numerose le sorprese anche per la televisione. In primis, la presenza di Squid Game in ben tre candidature e il trionfo come miglior attore non protagonista di Oh Yeong-su, il giocatore più anziano della serie. Stona parecchio la presenza di Lupin ma, comunque, a vincere miglior serie drammatica è Succession, assieme a Jeremy Strong (miglior attore) e Sarah Snook (miglior attrice non protagonista). Miglior serie commedia o musicale è Hacks, con Jean Smart come miglior attrice, sgominando l’amatissima Ted Lasso (che in ogni caso si aggiudica miglior attore a Jason Sudeikis).
Non potremmo essere più d’accordo nel consegnare a Michael Keaton il premio miglior attore in una miniserie, in questo caso Dopesick – Dichiarazione di dipendenza, disponibile su Disney+. Ispirata al bestseller di Beth Macy Dopesick: Dealers, Doctors and the Drug Company that Addicted America, racconta la lotta contro la dipendenza da oppioidi, grave problema che affligge gli Stati Uniti. Un grande plauso a Kate Winslet per miglior attrice nella miniserie Omicidio a Easttown e a MJ Rodriguez per miglior attrice nella serie Pose, un bel primato poiché si tratta della prima attrice transgender a ottenere un Golden Globe.
Tra le miniserie, degne rivali erano Maid o ancora Dopesick e invece ha conquistato il titolo supremo La ferrovia sotterranea, del regista Barry Jenkins, Premio Oscar al miglior film con Moonlight nel 2017. La storia della fuga di Cora, schiava in una piantagione di cotone, in questo drama storico sulla crudeltà dello schiavismo.
E qui torniamo al principio. Ciò per cui verrà maggiormente ricordata questa 79ª edizione dei Golden Globe è la scelta di svolgere la cerimonia a porte chiuse, tramite una semplice lettura di candidati e vincitori e senza il classico annuncio da parte delle varie star e il ritiro dei premi. Colpa soltanto del coronavirus? Ovviamente no. In realtà era da un po’ che la NBC (emittente che ha sempre trasmesso i Golden Globe) minacciava di non rinnovare i diritti di trasmissione alla HFPA (Hollywood Foreign Press Association), l’organizzazione che si occupa delle assegnazioni dei premi, accusandola di discriminazione razziale e di orientamento sessuale, oltre che corruzione. Nessuno dei suoi novanta membri, ad esempio, è afroamericano e, nonostante le esortazioni a migliorarsi, tali suggerimenti sono stati ignorati. È partito, quindi, un vero e proprio boicottaggio da parte di Hollywood, con star che hanno scelto di non leggere le premiazioni ed emittenti che si sono rifiutate di trasmettere l’evento.
Si tratta di un avvenimento storico, di grande rivoluzione e solidarietà comune, specialmente dopo i tumulti a seguito del Black Lives Matter. Qualcuno dei membri della HFPA ha commentato indignato: ci conoscete da anni, ve ne accorgete ora?. Un’interessante domanda, la cui risposta può essere, senza troppi giri di parole, sì. Perché, se qualcosa è sbagliato, non vuol dire che, poiché si è sempre fatto così, allora va bene. Da qualche parte si deve pur iniziare. Non è politicamente corretto (in senso estremizzato) né opportunismo o ipocrisia. È il risultato di un’evoluzione sociale e culturale in cui, a un certo punto, ci si accorge quando è il momento di eliminare comportamenti non più accettabili e fare un passo avanti.