Teatro è rigore. Teatro è disciplina e tecnica. E, nel caso della compagnia del NEST – la quale, sotto la direzione di Mario Martone, ha messo in scena una riattualizzazione de Il Sindaco del Rione Sanità – teatro è stato anche confrontarsi con un archetipo fondamentale della cultura partenopea: Eduardo De Filippo.
Cosa può scaturire da uno scontro con un titano, se non uno stupore luminoso di fronte ai propri risultati e una chiara consapevolezza delle proprie forze?
Lo scorso otto marzo, nell’Aula Magna della facoltà di Lettere della Federico II, si è tenuto l’incontro Attraverso Eduardo, e il regista napoletano, insieme a Francesco di Leva, Giovanni Ludeno e Adriano Pantaleo, si è trovato al fianco del professor De Blasi, ordinario di Linguistica italiana presso la medesima università, a spiegare la complessa operazione teatrale a due giorni dal debutto, di fronte a una platea entusiasta.
Altra reazione, in effetti, era impensabile. Già il semplice fatto che l’aver affidato a Martone questa rimessa in scena sia stata una decisione di Carolina Rosi – attualmente alla direzione della compagnia LDF, in linea con quello che sia Eduardo che Luca De Filippo facevano per i ragazzi a rischio – non poteva che essere entusiasmante di per sé. Tale versione dell’opera, infatti, è nata in una realtà particolare, il NEST, il Napoli Est Teatro di San Giovanni a Teduccio, un teatro che è azione sociale a trecentosessanta gradi, e lì ha preso una forma nuova, seppure fedelissima all’originale.
Nonostante ci si trovasse in ambito accademico, le questioni discusse avevano una dimensione assolutamente molteplice e avrebbero interessato chiunque, dal momento che andavano a toccare dei punti fermi, un’universalità vicina a qualsiasi napoletano.
Qual è il senso di affrontare Eduardo nel 2017? Come si fa? Con che modalità si fronteggia il macrotesto di un’opera di De Filippo, ossia tutto quell’insieme di caratteristiche di una lettura, che è appunto una e non l’unica? La direzione della compagnia ha scelto di muoversi nel solco, tracciato da un’attenta ricerca di tutti quei fili della trama, che l’Autore aveva tessuto e che l’Attore e il Capocomico avevano lasciato nascosti. L’Antonio Barracano di Martone, infatti, ha trentotto anni, quelli di Francesco Di Leva alla sua prima prova da protagonista. Ovviamente, a causa della scelta di abbassare l’età del personaggio principale, è stato necessario mutare tutte le altre dinamiche della costruzione dello spettacolo. Il “rispetto dell’autore” si è concretizzato proprio nell’attenersi “liberamente” al testo, riorganizzando o modificando radicalmente alcuni personaggi.
Per tale motivo, non solo l’intero cast è molto giovane – recitano anche alcuni esordienti del NEST – ma la stessa lingua ha una velocità altra: dal “voi” degli anni Sessanta si è passati al “tu” dei giorni nostri; al posto di una figura paterna si è riscoperta una figura fraterna, poiché – a detta del regista – nella realtà portata in scena non si arriva tanto facilmente a diventare figure paterne. Non se ne ha il tempo. È impensabile, inoltre, che Eduardo considerasse l’opera teatrale come un corpo fossile, immutabile. E l’operazione diviene semplice, perché nel testo de Il sindaco del Rione Sanità non c’è epoca: c’è solo il presente. Si tratta di un presente nero, feroce e ancora attuale, raccontato dalle parole del grande drammaturgo, un artista capace di parlare a ogni epoca e sempre con una spietatezza sotterranea, velata.
Si ride? Sì, certo. A denti stretti, anche in un allestimento come questo, il quale, respingendo la versione “eduardocentrica”, evidenzia alcuni dei tratti più inquietanti dell’opera. Vuole esserne un esempio la presenza di uno dei celebri cani, sempre sul palco, chiuso in una gabbia, ma visibile ai nostri occhi, quasi a voler richiamare ciò che di animale, di pericoloso si trovi in ognuno di noi: la bestialità di una realtà violenta come quella in cui si muove il capocamorra Barracano. Si ride, ma al contempo si resta ammutoliti.
Martone ha deciso, inoltre, di modificare anche il finale. La scena si chiude con una domanda del dottor Della Ragione, la quale vuole essere uno stimolo, come tutti gli altri interrogativi. Attraverso il recupero del personaggio del dottore, l’ignavo tradizionale, si è voluto dargli uno spazio diverso da quella che era la scelta originale. Sembra, tuttavia, persa ogni speranza. Probabilmente un finale meno concluso ha ottenuto un effetto più claustrofobico, ma pare che questa conclusione mancata squarci proprio quel velo posto da De Filippo come schermo della sua spietatezza, del suo sguardo profondo e lucidissimo sulle cose.
Dov’è la grazia? È negata a questa città? Ci è precluso un diverso stato di cose? Sembrano essere queste le inquietudini di alcuni degli spettatori alla prima, e a queste sensazioni, dopo due ore di meravigliosa conversazione, sia Martone che gli attori presenti hanno voluto rispondere e, contemporaneamente, non rispondere. La polvere di chi per quei problemi ci è passato da regista, e da attore, provandoli addosso come un vestito mai giusto, brillava ancora nei loro sguardi. Non si sono sottratti a una sola risposta. Il punto è, però, che forse una vera risposta non c’era. Proprio il regista ha concluso l’incontro dichiarando che il suo è stato un percorso parallelo al testo di Edoardo, un cammino sulla falsa riga di una serie di film, i suoi, che hanno come oggetto delle sconfitte, ma che si pongono come obiettivo quello di raccontare anche le battaglie.
La battaglia va ancora e sempre combattuta – e qui si è capito che Il giovane favoloso è divenuto quasi un marchio a fuoco per Martone – e la grazia va perseguita. La claustrofobia farà pure parte del reale, ma si vive e si deve vivere anche per gli enormi spazi aperti. Per l’illusione? Forse.
E si lotta facendosi domande, come quelle che, così immediate, sono sorte in un’aula di università. Andare a vedere lo spettacolo, a questo punto, è d’obbligo per tutti.