La Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, nominata con l’obiettivo di formulare proposte per migliorare la qualità della vita delle persone detenute e di coloro che operano negli istituti di pena, ha concluso i suoi lavori e presentato, entro il 31 dicembre dello scorso anno – come previsto dal suo mandato – una relazione finale piuttosto interessante.
Quando si parla di qualità della pena, ci si riferisce innanzitutto agli spazi detentivi, ampliando così la tradizionale prospettiva della pena vissuta unicamente nel perimetro della cella sino alle cinta murarie, come se si trattasse di una vera comunità. Una concezione che va a ribaltare l’anacronistica circolare del Dap di appena un mese fa, che rimodulava gli spazi di reclusione nei circuiti di media sicurezza, relegando la maggior parte dei detenuti all’interno delle cosiddette stanze di pernottamento.
A ciò che si aggiunga che – come sottolineato dalla Commissione – il carcere non è l’unica pena possibile, nonostante nel nostro ordinamento ci si ostini a farne un uso continuo e smisurato. Sanzioni e misure diverse da quella detentiva hanno maggiori possibilità di produrre effetti per il reinserimento sociale della persona condannata: si legge nella relazione diffusa pochi giorni fa, le cui premesse condividiamo pienamente. Bisogna inoltre sottolineare che l’utilizzo di strumenti alternativi alla detenzione permetterebbe anche di arginare il cronico problema del sovraffollamento – emerso in tutta la sua gravità durante il periodo pandemico – rendendo così la reclusione più umana e quanto più vicina alla realtà esterna, arrivando a rispettare almeno in minima parte il dettato costituzionale e legislativo.
La riduzione del sovraffollamento – che in alcune regioni raggiunge il tasso del 200% – è ancora più necessaria in un momento in cui il contagio sta correndo veloce e anche i casi di Covid tra le mura penitenziarie crescono a dismisura: secondo gli ultimi dati diffusi dal Ministero della Giustizia, sono più di mille i positivi tra la popolazione detenuta e il personale, in un luogo in cui la promiscuità e le condizioni igienico-sanitarie precarie favoriscono la diffusione del virus.
Tra le proposte concrete c’è ad esempio l’utilizzo della liberazione anticipata speciale, che consente una detrazione per ogni semestre di pena scontata di settantacinque giorni, anziché di quarantacinque, come prevede quella ordinaria. Nella relazione finale si precisa, però, che lo strumento deve essere utilizzato in maniera automatica, senza incrementare i già onerosi compiti dei tribunali di sorveglianza. La diminuzione delle presenze è inoltre presupposto necessario per dare attuazione concreta alla prospettiva rieducativa e conciliarla con la necessità di sicurezza: questo significa, nell’idea della Commissione nominata dalla Ministra Cartabia, scegliere professionalità diversificate, ciascuna per il proprio ruolo, pur nella loro costante collaborazione e sinergia.
Partendo da tali premesse, si rendono quindi necessarie modifiche sia normative che amministrative, innovando prassi ormai obsolete. In vista di una reale innovazione del sistema penitenziario e di un miglioramento effettivo delle condizioni di vita di chi vive e lavora in carcere, la modifica del Regolamento di esecuzione n.230 del 2000 è il primo fondamentale passo.
Quanto prospettato spazia da semplici interventi riguardanti la gestione della vita penitenziaria – come la previsione della presenza, una volta al mese, di un dipendente comunale che possa ottemperare a tutte le richieste della popolazione detenuta per le quali sia necessaria tale figura – a più incisive riforme come la previsione, per la prima volta, di una reale rappresentanza dei detenuti, per le attività in cui essa sia richiesta dalla legge, che non sia estratta a sorteggio ma nominata dai reclusi stessi, come del resto avviene nelle comunità esterne.
Particolare attenzione è stata posta, poi, sul tema della salute e, nello specifico, della salute mentale: il carcere necessita di interventi urgenti, come ci conferma già il primo suicidio dell’anno, avvenuto il primo gennaio a Salerno. Se un ventottenne si toglie la vita così, abbiamo la certezza del luogo patogeno rappresentato dagli istituti di pena. Ancora, al centro della relazione modifiche volte alla tutela dell’infanzia perché i bambini non debbano vivere l’esperienza detentiva con le proprie madri, se non in casi del tutto eccezionali, e la tutela delle persone straniere, cui deve essere rivolta una particolare attenzione al fine del loro reinserimento sociale.
La Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario incentiva inoltre l’utilizzo delle tecnologie nella quotidianità detentiva per diminuire quella oramai inaccettabile cesura tra ciò che c’è dentro e ciò che c’è fuori le mura degli istituti: in questi ultimi due anni abbiamo avuto la prova di quanto gli strumenti telematici siano fondamentali per mantenere i contatti, anche quando non ci si può abbracciare. Implementarli significa migliorare la qualità della vita, ridurre il senso di alienazione cui la detenzione conduce, senza che ciò comprometta gli ordinari strumenti di incontro previsti dall’ordinamento. La tecnologia può risultare fondamentale anche nell’ambito della formazione professionale e scolastica e del reale reinserimento sociale e lavorativo.
Un rinvio meritevole di attenzione viene fatto anche al tema della sessualità repressa in carcere: i membri della Commissione si dicono favorevoli alla previsione di strumenti che possano consentire i cosiddetti incontri intimi, così come previsti da numerosi altri ordinamenti europei e non, rinviando al progetto redatto dalla Commissione Giostra e risalente al 2017. Eppure, se solo pensiamo alle dichiarazioni di allora di rappresentanti politici che negavano in maniera categorica la necessità di un simile intervento, perché ai loro occhi significava “cedere” di fronte ai detenuti, e guardiamo il panorama politico attuale, non possiamo che essere sconfortati.
La Commissione presieduta dal professor Marco Ruotolo ha svolto un lavoro necessario e ha dimostrato quanto sia urgente intervenire sul tema della detenzione, oramai vissuta in maniera anacronistica ed esclusivamente repressiva. Tuttavia, la sfida è ardua e chi ci governa non sembra ben predisposto in tal senso poiché continua a inseguire un’idea di pena che significa punizione, che non si evolve mai, che dimostra tutta la sua inutilità e inidoneità a perseguire i fini fissati dalla Costituzione. Noi speriamo di sbagliarci, ma staremo a vedere.