Classe ’95, voce calma, anche mentre parla di cose che fanno incazzare, sguardo fermo. Jacklin Faye è un’attivista femminista e antirazzista che lotta ogni giorno contro le discriminazioni del mondo e del nostro arretrato Paese. Il suo mezzo di comunicazione è internet, l’arma del suo attivismo le parole, attraverso le quali spiega lucidamente e in modo accessibile a tutti le tematiche più spinose della discriminazione in Italia.
L’abbiamo intervistata, e dal confronto sono venute fuori osservazioni estremamente interessanti non solo su femminismo e antirazzismo, ma anche sull’autocritica e il mettersi in discussione, sul peso della storia e delle lenti attraverso cui la si guarda e sull’intersezionalità di tutte le discriminazioni, ognuna legata alle altre da un filo non troppo invisibile.
Parlare di razzismo in Italia e parlare di femminismo in Italia. Tu fai entrambe le cose, che differenze ci sono?
«La risposta cambia a seconda del periodo. Qualsiasi percorso che porta ad avere delle consapevolezze riguardo diritti civili e attivismo non è statico. Apprendi durante tutto il tuo percorso e ci sono momenti in cui ti senti più vicina a certe tematiche rispetto ad altre. Per quanto riguarda la mia esperienza, io sono sempre stata vicina all’antirazzismo. È complicato da spiegare, ma è letteralmente qualcosa da cui non posso scollegarmi, diversamente dal femminismo. L’ho sempre sentito il femminismo, ma era un aspetto meno preponderante nella mia vita: essere nera in Italia mi ha portato molti più problemi rispetto all’essere donna – e non è che non me ne abbia causati. Infatti, quando ho iniziato a parlare di femminismo, a un certo punto mi sono resa conto che ciò che dicevo non mi piaceva perché mi ero adeguata a degli schemi preimpostati di tematiche parziali. Mi mancava l’esperienza di donne non bianche e avvertivo delle incongruenze perché il femminismo storicamente si è sempre interessato solo alle donne bianche e di certe classi sociali. Quindi, se prima parlavo di femminismo in un modo che non sentivo davvero mio perché non si adattava alla mia esperienza, quando ho iniziato a parlare di antirazzismo, l’ho applicato anche alle tematiche del femminismo. Credo che sia questa la differenza tra femminismo e antirazzismo, perché all’interno del femminismo esiste un muro tra chi ne parla in senso generico e chi ne parla in senso antirazzista e de-coloniale».
Quindi, quando hai approcciato al femminismo, ti sei resa conto che questo è difficilmente intersezionale e hai fatto l’opposto: hai reso il tuo antirazzismo intersezionale. Il che è una chiave di lettura molto interessante. A proposito di femminismo intersezionale mainstream, recentemente hai espresso le tue opinioni riguardo la questione del vagone rosa sui treni: sostenevi che non è una soluzione a lungo termine e non è certamente ciò che farà scomparire il sessismo, però è una soluzione pratica. E chi non se ne rende conto probabilmente non sa che il femminismo ha anche tanto a che fare con la lotta di classe perché è un problema delle donne che non possono permettersi di non prendere il treno. Ora, è ovvio che quel vagone non sia la risposta, ma se viene avanzata è perché c’è un problema al quale non si stanno offrendo altre soluzioni. Come fare?
«A differenza di come la cosa è stata vissuta, nessuno ha detto che dobbiamo dividere uomini e donne dappertutto, applicare il separatismo come soluzione alla violenza di genere. È chiaro che i vagoni non siano una soluzione, e anzi sotto un certo punto di vista sono un problema: perché se ci piace questa opzione, significa che c’è una falla grave nel sistema. Se io mi sento talmente in pericolo da desiderare che sia fisicamente impedito a un uomo di avvicinarsi a me, il problema non c’è l’ho io, ce l’abbiamo tutti. E quella del vagone, almeno, è una soluzione concreta.
Secondo me, il principale problema del femminismo in Italia è che non tiriamo fuori proposte pratiche. Al di là di quello che può avanzare qualche politico lungimirante come per esempio Civati, su alcune questioni delicate ci sono degli aspetti della violenza di genere caratteristici del nostro Paese che trattiamo solo dal punto di vista teorico. Tra l’altro questa proposta viene dal basso, dalle donne che effettivamente non si sentono al sicuro sui mezzi di trasporto, e denigrarla a priori significa non avere alcuna conoscenza dei problemi reali che può avere una donna non privilegiata».
Nel saggio che hai pubblicato, Anche questo è femminismo (edito da Tlon), hai scritto che l’integrazione, così come è narrata, pare sia responsabilità dei discriminati e non di chi discrimina. Credo che questo concetto sia applicabile a qualunque tipo di discriminazione, alle donne che devono educare gli uomini o alla comunità LGBTQIA+ che deve rispondere alle domande degli altri. Che riscontro ne hai tu nella realtà?
«Secondo me il problema principale di chi appartiene alle minoranze, e in particolar modo alle persone razzializzate, è che queste diventano un’enciclopedia. Quando affronti delle tematiche che per te sono la tua vita reale, diventi come un simbolo a cui tutti fanno riferimento e finisce che devi essere tu a convincere gli altri che stai dicendo cose sensate. Tutto questo deriva da una mentalità eurocentrica secondo cui la mia cultura di uomo bianco borghese è al centro del mondo e sei tu che stai arrivando dall’esterno che ti devi adattare a me. Per esempio, soprattutto nel periodo in cui è passata la Bossi-Fini, la gente ha iniziato a parlare di integrazione come se fosse un obbligo dei migranti farsi accettare da un tessuto sociale che, tra l’altro, non li vuole. Tutti ci dobbiamo assimilare a quel determinato tipo di cultura, e poi se lo fai comunque non sei italiano, non hai davvero la possibilità di integrarti e non dipende da te».
Hai tirato fuori la questione dell’etnocentrismo, la lente attraverso la quale abbiamo sempre guardato la storia. Nel tuo saggio dici che dovremmo partire dalle scuole e da come la storia viene insegnata. Ma in realtà dovremmo cambiare completamente il punto di vista con cui abbiamo sempre guardato sia al passato che al presente. Da dove si comincia?
«Ogni Paese europeo ha una sua storia di colonialismo. Ce l’ha anche l’Italia, sebbene fingiamo che non sia così. Il problema secondo me è che c’è una grandissima mancanza di consapevolezza di quello che è successo, non solo durante il fascismo, ma anche nelle ex colonie, in Somalia, in Etiopia, in Libia, in Eritrea. Ma anche banalmente pochi decenni fa, come Craxi che cerca di minare le politiche in Libia solo per interessi commerciali italiani. Queste sono tutte cose che purtroppo a scuola non si insegnano. L’italiano medio, lo studente medio, quando si parla di colonialismo probabilmente delle armi chimiche non sa nulla. Già facciamo fatica a parlare di antifascismo, figuriamoci a parlare dei prodotti del Ventennio. Siamo incapaci di fare autocritica sul nostro passato.
Un altro problema è anche l’accesso all’insegnamento delle persone non bianche, che difficilmente ottengono la cittadinanza, figuriamoci l’accesso a certe professioni. E per insegnare la storia, per esempio, conta anche il background culturale, non solo quello accademico. Non è con i laboratori e con le conferenze a scuola che si spiega l’antirazzismo, lo si fa con esperienze dirette, attraverso gli eventi storici. Non si può pensare che ognuno formi la sua coscienza in modo autonomo. Bisogna cambiare il modo in cui insegniamo la storia, ma anche la letteratura, perché non si studia alcun autore non bianco. Probabilmente c’è una volontà a cancellare una parte di storia».
All’ultima domanda, forse, non puoi darmi una risposta. Ma un parere sì. Secondo te, è davvero necessario aver subito un qualunque tipo di discriminazione per interessarsi alle discriminazioni altrui o per empatizzare con gli altri?
«Credo che le persone a prescindere dal genere siano un mondo a sé, e soprattutto non è scontato che una persona che non è obbligata a farlo abbia voglia di informarsi. Purtroppo ci sono alcuni individui, non solo individui privilegiati, non solo uomini bianchi ed etero per esempio, che non riescono ad andare oltre gli insegnamenti del contesto in cui sono cresciuti. Ma non può dipendere solo dal contesto, quello a un certo punto diventa una giustificazione, soprattutto ora che con internet le informazioni sono accessibili a tutti. Non si tratta di percezione, ma della volontà di capire le cose. Il problema non è solo che siamo tutti pieni di bias, ma anche e soprattutto il fatto che difficilmente ci si mette in discussione, difficilmente ci si circonda di persone che la pensano in modo diverso. Certo, fare parte di una o più categorie oppresse aiuta molto nella comprensione di certe cose, anche delle discriminazioni altrui, ma questa non è mai stata una garanzia, altrimenti non esisterebbero le Terf per esempio.
Non dipende dall’esperienza della discriminazione, dipende dalla volontà di fare autocritica. Bisogna essere consapevoli di aver fatto degli errori – perché a ognuno di noi è capitato prima di acquisire maggiore consapevolezza – di aver avuto comportamenti sbagliati, e bisogna partire da lì, dal correggere quel tiro. Ma fare autocritica, mettersi in discussione, non è facile e non tutti sono disposti a farlo».