Nell’immaginario comune, le persone senza fissa dimora sono dei nomadi per scelta che rifuggono le regole della società e preferiscono la libertà della vita per strada. Certo, qualcuno è affetto da malattie psichiatriche di cui nessuno si è mai preso cura, qualcun altro ha perso tutto, qualcun altro ancora è semplicemente poverissimo. Però deve essere una percentuale davvero bassa, perché la reazione che si ha quando ci si trova nei pressi di un senzatetto è quella di tenerlo lontano, perché se si trova in quelle condizione dovrà pur essere in qualche modo colpa sua.
La stessa retorica del successo figlia di un imperfetto sistema capitalistico che incolpa i poveri per la loro povertà e i perdenti per le loro sconfitte finisce per incolpare i senzatetto della loro condizione, come se fosse davvero possibile che, tra 50mila persone senza fissa dimora in tutta Italia, neanche una di esse si trovi in quella condizione per un inequivocabile fallimento delle politiche sociali. Eppure, che dei senzatetto non importi a nessuno, risulta chiaro da tantissimi fattori, dalla tendenza in aumento in Italia e in Europa, dalla scarsità di dati a riguardo e dall’aumento della cosiddetta architettura ostile. Ma ognuno di questi fattori risulta invisibile e, per giustificare l’indifferenza pubblica nei confronti dei senza fissa dimora, si parla sempre e solo di decoro.
Il decoro è un concetto estremamente problematico. Sebbene – o forse proprio per questo – di per sé non abbia un significato specifico, non sottintenda alcuna norma precisa, è spesso utilizzato per giustificare ben più di una mancanza in tema di diritti. Attraverso il decoro si tenta di imporre alle persone – e alle donne soprattutto – un determinato abbigliamento, per il decoro si chiede ai corpi non conformi di conformarsi, o alle coppie non eterosessuali di nascondersi. E con il decoro, da sempre, si tenta di nascondere alla vista le persone senza fissa dimora.
I numeri in merito ai senzatetto in Italia e in Europa sono spaventosi, e purtroppo non sono neanche aggiornati. Italia, Francia e Spagna sono i Paesi sotto accusa, ma in tutta l’Unione Europea vivono per strada ben 700mila persone. Questi numeri hanno portato il Parlamento Europeo a lanciare un allarme nel 2020 e a richiedere un’azione da parte di tutti i Paesi UE per azzerare il fenomeno entro il 2030. Per farlo, però, sarebbe necessario introdurre piani d’azione che riconoscano la casa come un diritto fondamentale di ogni essere umano. Un diritto che dovrebbe essere scontato, ma che, per il momento, sembra non rispettato neanche negli illuminati Stati occidentali, che in quanto a diritti umani non dovrebbero lasciare così tanto a desiderare.
È molto probabile, inoltre, che le stime a cui facciamo riferimento attualmente siano poco veritiere e mostrino una situazione molto meno grave di quella che è in realtà. Non esiste, infatti, un database italiano aggiornato e gli ultimi dati risalgono al 2014. Le ricerche Istat di sette anni fa stimavano la presenza di oltre 50mila persone senza fissa dimora in tutta Italia, ma un vero censimento non è mai stato fatto e i dati si riferiscono solo a coloro che hanno usufruito di un servizio di mensa o di accoglienza notturna.
Questa assenza di dati probabilmente dipende dallo scarso interesse della società civile nei confronti degli emarginati. Dopotutto, è difficile che si parli di loro e l’unico momento in cui l’attenzione è stata posta su queste persone è stata durante i lockdown dello scorso anno, poiché si è presentato il problema di coloro che non avevano una casa in cui rinchiudersi. Insomma, delle persone che vivono per strada, che non hanno un riparo dal freddo, dalla pioggia e dalla neve, sappiamo molto poco. Non sappiamo quante siano né come sopravvivano. L’unica cosa che sappiamo è dove non le vogliamo: nei nostri parchi, nelle nostre metropolitane, fuori dalle nostre chiese o sopra le nostre panchine. Con la scusa del decoro, dopotutto, è facile giustificare la disumana cattiveria di chi si dispiace per i senzatetto ma spera che occupino le strade di qualcun altro.
Questa tendenza alla crudele marginalizzazione risulta evidente dalla presenza della cosiddetta architettura ostile. Essa nasce come una strategia di progettazione urbanistica che impedisce atti vandalici o comportamenti che possano ledere l’ordine pubblico. Ci è voluto poco, però, perché l’ordine pubblico si trasformasse in decoro e l’architettura diventasse ostile nei confronti delle persone senza fissa dimora. Superfici piane come i marmi davanti alle vetrine dei negozi ricoperti di spuntoni, o panchine spezzate da braccioli che le dividono a metà sono espedienti per impedire alle persone di stendervisi. Allo stesso modo, stazioni pubbliche e ponti chiusi con cancelli e inferriate, perché di notte nessuno si rifugi lì dalle intemperie.
Si chiamano misure anti-senzatetto, con il nome che richiama un insetticida e, d’altronde, il concetto è più o meno lo stesso. Persone da tenere alla larga, così terribilmente fastidiose alla vista da doversi ingegnare nella creazione di misure architettoniche che le scaccino, invece di ingegnarsi per risolvere il problema. Sono misure adoperate principalmente nei luoghi più ricchi delle città, strade commerciali, luoghi tanto frequentati da chi finisce per escludere i più vulnerabili pur di non doverli guardare. Se l’architettura ostile ha l’obiettivo di scoraggiare i comportamenti antisociali mi chiedo cosa ci sia di più antisociale dell’impedire ai senza fissa dimora di trovare un riparo. Cosa esattamente rende sociale l’esclusione, la marginalizzazione e l’allontanamento?