L’abbiamo visto appena due giorni fa abbracciare i suoi cari, gli amici, i familiari, la sorella. Stringerli a sé con le mani ancora consumate dalla prigione, con gli occhi increduli di chi ritrova la libertà dopo quasi due anni di detenzione disumana. Patrick Zaki è libero. Eppure non ancora assolto.
A stabilirlo è stato il giudice di Mansoura, mettendo così fine ai 668 giorni di reclusione che il giovane ha scontato in varie carceri egiziane, tra cui quella terribile di Tora, che serve a punire soprattutto i dissidenti politici e coloro che sono considerati avversi dal regime di Al-Sisi. In quella stessa città, in quelle stesse aule di tribunale in cui più di un anno fa, è stata rinnovata, mese dopo mese, l’arbitraria detenzione di Patrick, ogni volta per quarantacinque giorni, senza alcuna possibilità di difesa né contraddittorio, è stata sancita la liberazione di Zaki. Ad attenderlo, fuori da quelle possenti mura, la sorella, la madre e la fidanzata. Ad abbracciarlo, a sostenere il suo sguardo stanco, a fargli forza, anche se in questi lunghi mesi è stato lui a dimostrare più forza di tutti.
Lo studente dell’Università di Bologna Alma Mater Studiorum è stato arrestato il 7 febbraio 2020, al suo rientro in Egitto, e accusato di diffusione di notizie false e dannose per lo Stato, oltre che di istigazione alla violenza e ai crimini terroristici. Si tratta di reati particolarmente gravi, per i quali Patrick rischia più di dieci anni di prigione, fondati su prove inesistenti costruite ad arte per punire il suo attivismo politico.
Lo strumento della carcerazione preventiva, in attesa del processo, è molto utilizzato dal regime egiziano per questo tipo di reati e si serve di torture subdole e privazioni ingiustificate che portano tanti reclusi ad arrendersi. Tutte le carceri d’Egitto sono pericolose, ma quando Zaki è stato trasferito nella prigione di Tora, è stato fin da subito chiaro che non si sarebbe trattato di un caso di rapida risoluzione poiché è diventato di competenza della Procura Suprema di Sicurezza dello Stato, uno strumento di repressione nelle mani del regime. L’organo si occupa, infatti, di punire tutte quelle attività che sono considerate un pericolo per la sicurezza nazionale, ma di altro non si tratta che di un mezzo per colpire qualsiasi forma di dissenso o attivismo politico e i diritti civili.
E così, in un’udienza di pochi minuti, il giudice ha stabilito di liberare Zaki, probabilmente perché si avvicinava il termine massimo di due anni per i quali si può prorogare la detenzione cautelare, ma anche stavolta senza fornire molte indicazioni, né permettere alcun contraddittorio. Questo è il motivo per cui non bisogna abbassare la guardia: se c’è da gioire per la riconquistata libertà di Patrick, che gli ha permesso di riabbracciare i suoi cari e tirare un sospiro di sollievo, in un momento in cui era probabilmente vicino al limite di qualunque sopportazione umana, bisogna ricordare che le accuse rimangono in piedi e che a febbraio sarà celebrata la prima udienza del processo.
L’interesse dimostrato dalle organizzazioni internazionali e dalla società civile deve farsi ancora più forte, per chiedere che cadano tali accuse ingiustificate e arbitrarie. Risulta quindi necessario il sostegno del governo e di tutte le forze politiche in campo, che devono abbandonare mere enunciazioni e iniziative simboliche per schierarsi apertamente al fianco di Patrick, per gridare forte e chiara la sua innocenza. E per evitare un nuovo caso Regeni, per cui il nostro Paese porta sul capo una responsabilità enorme in termini di verità mai emerse e depistaggi dei quali siamo complici. Così come siamo complici di un regime disumano che si serve di tali strumenti di repressione, quando i nostri rappresentanti stringono la mano di Al-Sisi e nutrono il suo sistema con le nostre armi e munizioni.
Il momento del processo è preoccupante perché se esso avverrà con le stesse modalità delle udienze per il rinnovo della custodia cautelare finora svoltesi, i legali di Patrick continueranno a non avere alcuna possibilità di difesa né contraddittorio. Basti pensare che le prove su cui si basa l’intero impianto accusatorio non sono mai state mostrate loro. Si tratterebbe di alcuni post su Facebook dello studente egiziano, che probabilmente sono falsi e non provenienti dal vero profilo di Patrick. Allo stesso modo, non è mai stato dato seguito alla loro richiesta di visionare i filmati dell’aeroporto internazionale de Il Cairo per dimostrare la falsità del verbale d’arresto, che riporta invece che l’arresto è avvenuto a Mansoura. Una pantomima costruita ad arte per nascondere la verità, i soprusi, le violenze a cui Patrick è stato sottoposto durante un interrogatorio lungo ore – in cui gli è stato anche ripetutamente chiesto se avesse rapporti con Giulio Regeni – e poi proseguite per tutto il tempo della sua detenzione.
Notizie che oramai conosciamo da due anni, direte. È bene ricordare, però. Per rimettere a posto i tasselli e ripartire con consapevolezza e con un pizzico di speranza in più. Per ricordare, non abbassare la guardia, per rimanere sempre dalla parte giusta della storia.