Nell’affrontare il delicato tema del fine vita in merito ai malati terminali affetti da patologie irreversibili con un esito infausto, il termine più spesso ricorrente è quello di cure palliative. La parola palliativo deriva dal latino pallium ossia mantello, protezione, ed è riferita all’insieme di interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi nefasta, non risponde più a trattamenti specifici. Le cure palliative sono, quindi, quell’insieme di cure, non solo farmacologiche, volte a migliorare il più possibile la qualità della vita, sia del malato in fase terminale che della sua famiglia.
La fase terminale è una condizione irreversibile in cui la malattia, come accennato, non risponde più alle terapie che hanno come scopo la guarigione ed è caratterizzata da una progressiva perdita di autonomia della persona e dal manifestarsi di sintomi fisici e psichici. In queste condizioni il controllo del dolore e degli altri disturbi, dei problemi psicologici, sociali e spirituali, assume un’importanza primaria. Lo scopo delle cure palliative non è quello di accelerare né di ritardare la morte, ma di preservare la migliore qualità di vita possibile fino alla fine.
A favore di tali cure si è espresso di recente il Vaticano, definendole in modo arbitrario, oltre che inappropriato, l’unica scelta possibile per Mario, tetraplegico da dieci anni a seguito di un grave incidente stradale, dopo che gli è stato concesso – primo storico sì in Italia – di avvalersi del suicidio medicalmente assistito, da parte del Comitato Etico dell’Azienda Sanitaria di Ancona. Questa se pure parziale vittoria, nella conquista del legittimo diritto per i malati terminali di autodeterminazione del fine vita, è stata frutto di un iter lungo e faticoso ed è seguita alla verifica dell’esistenza delle quattro condizioni stabilite, nel merito, dalla Corte Costituzionale: il mantenimento in vita tramite trattamento di sostegno vitale, la presenza di una patologia irreversibile, le conseguenti sofferenze intollerabili, la capacità di prendere decisioni libere e consapevoli.
«Pur restando immobile ho capito che in questi mesi ho fatto una cosa grande» aveva detto Mario, «adesso mi sento più leggero, mi sono svuotato di tutta la tensione accumulata in questi anni». Con la sua battaglia quest’uomo, costretto all’immobilità da così lungo tempo, ha scritto una pagina storica sul fine vita nel nostro Paese. Non solo, ha anche consegnato un altro punto a favore dell’Associazione Coscioni e del tesoriere Marco Cappato che ha sostenuto la sua causa, raccolto e depositato 1 milione e 240mila firme per il referendum sull’eutanasia: Mario potrà finalmente scegliere quando morire e, soprattutto, farlo a casa propria, accanto alle persone care.
Per Città del Vaticano, come già accennato e prevedibile, la notizia del via libera al suicidio assistito ottenuto da Mario è stato un fulmine a ciel sereno. Alcuni dei commenti trapelati a caldo sono fondati sulla domanda se non siano altre le strade da percorrere per una comunità che si rende responsabile della vita di tutti i suoi membri, favorendo così la percezione in ciascuno che la propria vita è significativa e ha un valore anche per gli altri. La difesa della vita per la Chiesa viene prima di tutto.
È lecito chiedersi se nella formulazione e nell’approfondimento del suddetto quesito si sia dato il giusto peso e significato alle parole propria vita. Non si comprende, infatti, in base a quale sentimento etico e di giustizia sia dal clero considerata inaccettabile e condannabile la scelta ultima dei malati terminali, quando ancora nel pieno possesso della propria facoltà di intendere e volere, di porre termine alla propria esistenza, fatta solo di sofferenze fisiche e psichiche inaudite, con la morte.
Eppure, il Cardinale Carlo Maria Martini aveva enunciato in modo netto la sua posizione sull’accanimento terapeutico in un articolo del 2007 dal titolo Io, Welby e la morte, scritto all’indomani della scomparsa di Piergiorgio Welby, malato terminale di distrofia muscolare che aveva chiesto la sospensione delle terapie farmacologiche. Il Cardinale aveva poi confermato tale convinzione nel suo ultimo libro Credere e conoscere nel quale afferma che le nuove tecnologie che permettono interventi sempre più efficaci sul corpo umano richiedono un supplemento di saggezza per non prolungare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona.
Con tali parole, dunque, aveva testimoniato pubblicamente, tramite il suo neurologo, la volontà alla rinuncia a cure prolungate sulla sua persona, accelerando di fatto la propria fine: la liberazione dal morbo di Parkinson che non gli consentiva più la deglutizione. Nessun sondino, niente alimentazione forzata, il punto più controverso del disegno di legge sul testamento biologico, mai diventato legge. Appare evidente, dunque, che, negli anni, in materia di fine vita, negli ambienti ecclesiastici abbiano trovato spazio prese di posizione diametralmente opposte.
Compito del legislatore è quello di dirimere, in via definitiva, i vari nodi esistenti su tali spinose problematiche e, a tal proposito, fondamentale è stato il pronunciamento della Corte di Cassazione sul caso di Eluana Englaro, morta dopo essere rimasta in stato vegetativo svariati anni e tenuta in vita con l’alimentazione forzata, nel quale è stato sancito che il diritto alla salute, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo e cioè: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire.
Alla luce di quanto sopra, la Suprema Corte ha promulgato la legge n.219 del 2017 che riconosce alcuni importanti principi, primo fra tutti la possibilità di rifiutare in tutto o in parte qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico o singoli atti quali la nutrizione e la idratazione artificiale. La legge prevede, inoltre, che le persone maggiorenni capaci di intendere e di volere, in previsione di una siffatta futura incapacità, possano esprimere la propria volontà sui trattamenti sanitari anche individuando e avvalendosi di un fiduciario. Stabilisce, infine, che, di fronte all’evolversi di una patologia cronica e invalidante con prognosi infausta, possano essere pianificate le cure fra medico e paziente, garantendo la redazione del testamento biologico.
Il testo di legge, tuttavia, risulta solo in apparenza chiaro. Esistono, infatti, aspetti problematici attinenti alla sua effettiva applicazione alla luce di alcune disposizioni che favorirebbero una dubbia interpretazione: potrebbe esserci spazio per un “imprevisto” diritto di obiezione di coscienza e dunque risultare difficile l’individuazione del ruolo dei soggetti terzi così come dei medici, di volta in volta, chiamati alla relazione di cura.
In anni recenti, il delicatissimo tema dell’autodeterminazione nella scelta del fine vita ha riguardato la vicenda Cappato che ha indotto la Corte Costituzionale ad aggiungere un ulteriore fondamentale tassello alla norma: quello concernente il suicidio assistito, nel mentre l’articolo 580 del Codice Penale rubricava l’istigazione o aiuto al suicidio. È quanto emerso nella nota vicenda di Fabiano Antoniani (Dj Fabo), affetto da una malattia invalidante irreversibile, che fu condotto e assistito in Svizzera, sino alla programmata fine, da Marco Cappato dell’Associazione Coscioni. A seguito del provvidenziale intervento della Corte Costituzionale è stata esclusa la punibilità di terzi nei casi in cui il soggetto si identifichi in una persona affetta da patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche e psicologiche assolutamente intollerabili e sia tenuta in vita tramite sostegno vitale, ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
È bene precisare che, nella vicenda Cappato, la necessità dell’applicazione della legge alle cure palliative e alla sedazione profonda ha posto l’accento sull’indispensabile verifica delle condizioni poste (e delle modalità di esecuzione) da parte del Servizio Sanitario Nazionale. È arduo pensare a cosa accadrà se le strutture pubbliche del nostro Paese non si attrezzeranno per garantire tali verifiche e a come si coordineranno i controlli da parte di dette strutture con l’esecuzione in quelle private.
Si tratta di quesiti di non scarsa entità, considerando che, infatti, in futuro sembra rimanere punibile, anche dopo la pronuncia della Corte di Cassazione, chi aiuti al suicidio non rispettando la preventiva verifica delle condizioni e delle modalità di esecuzione da parte delle strutture sanitarie italiane.
Questo groviglio di prese di posizione ottuse e ingombranti, di diposizioni normative dalla dubbia interpretazione, dovrebbe essere districato dal Parlamento, finora latitante, con una legge che segni una svolta finale su tali complesse problematiche. Come spesso accade, invece, le sue anime sono divise anche su questioni di primaria importanza per il Paese.
Di certo c’è che una più che folta schiera di malati e altrettanti casi irreversibili non possono più attendere. Ne va della loro dignità – e nostra – di persone.
Contributo a cura di Anna Loffredo