Al numero otto di Belvedere Close c’era un villino con le tende tirate. Chiunque vi facesse visita, trovava un uomo accovacciato a terra e, sulle pareti, dei disegni che via via prendevano forma. Quello accovacciato è il protagonista di Uomo con gabbiano sulla testa, romanzo di esordio di Harriet Paige, autrice anglofona tradotta da Daniela Marchiotti per 8tto edizioni.
Un ensemble di personaggi percorre le strade tra città e periferia, dei tragitti che sfociano sempre in una piazza o in un parco così puntualmente nominati che il disegno finale è una lucida geografia. Tutto ha inizio nell’East Beach dove Ray Eccles, il 12 giugno del 1976, si spinse per vedere il mare aperto. Questi non era altro che un uomo normale, un impiegato qualsiasi che conviveva con l’idea che la sua vita da sempre fosse un’anonima sala d’attesa.
Ma su quella spiaggia gli capitò una cosa bellissima: un gabbiano cadde sulla sua testa facendogli perdere i sensi, non prima che lui avesse visto una donna. Era in piedi, di schiena, in camicetta bianca, e dalla sua visuale gli appariva come una figura mitica a mezzo busto, messa lì per lui, per qualche oscura ma importante ragione. Il gabbiano piombò nell’esatto momento in cui lei si voltò, quando i due si guardarono dritti negli occhi.
Temo di averlo lasciato là. Jennifer, la donna in camicetta bianca, quel giorno, stranita, si defilò dall’incidente, ignara di averlo ispirato per sempre. L’immagine della donna lo avrebbe perseguitato infatti per anni, perché da quel giorno Ray iniziò a riprodurla senza sapersi fermare mai, spinto da un’urgente e dolorosa ricerca. La dipinse sulle pareti del villino di Belvedere Close con ogni pigmento a disposizione, fino alla zuppa, ai fluidi corporei, qualsiasi cosa gli permettesse di tracciarne ossessivamente i lineamenti intorno a sé.
La scrittura del romanzo è lineare, chiara, diligente e segue i personaggi come punti sulla stessa riga di un lavoro a maglia; li lascia, li riprende e li interseca con calma. Ricorrente è il termine “cameratismo” che, fosse solo per il sentimento di solitudine, accomuna già tutti i protagonisti. Tra le pagine sono inseriti un paio di articoli culturali, dal timbro ancora più definito; le stesse giornaliste sono figure dinamiche che, col proprio passo svelto nello spazio narrativo, contribuiscono al lavoro a maglia. L’autrice, inoltre, adopera una terza persona “amica”, che assume un atteggiamento simile e include un simile punto di vista del personaggio su cui via via si focalizza. Quando compare Grace, ad esempio, il tono si fa più sensibile e accurato.
Grace e George Zoob erano una stimata coppia di professionisti che, come cacciatori di taglie, andavano alla ricerca di outsiders (“matti”, “non-artisti”) setacciando i margini della società, per consegnarli poi a quel curioso e inclusivo pezzo di mondo dell’arte contemporanea. Arrivarono anche ai disegni di Ray e ne raccolsero la pittura infantile e insolitamente bellissima, insieme alla sua persona rannicchiata e intangibile.
Ben presto, quel volto di donna sulla spiaggia divenne un’immagine iconica, regina della serie She; Ray Eccles, ormai cinquantenne, l’angelo di casa Zoob, centro dell’attenzione mediatica senza nemmeno accorgersene. Grace e suo marito George accudirono istintivamente quell’uomo perplesso, un po’ ferito, che nel loro appartamento, in un quartiere esclusivo di Londra, continuava a fare quello per cui sembrava chiamato fino a perdere la testa, tanto che bisognava mettergli la tela davanti, altrimenti quella cosa sarebbe venuta fuori comunque, sul pavimento o sui muri. L’assoluta dedizione che Ray riservava a “quella cosa”, i padroni di casa provarono a richiamarla a sé ma, per quanto Grace tentasse di farsi vedere davvero, lui la rifuggiva, consumandosi sotto i suoi occhi innamorati. Fu affidato all’arte il compito di metterle di fronte la crudele verità: Grace non faceva parte di quella storia.
La Lei in camicetta bianca, intanto, si era confinata nell’Inghilterra sudorientale in un matrimonio modesto con Vito, Mamma e tutta la famiglia immigrata dall’Italia. Il quadro di Positano, insieme alle lasagne, dava un tocco di italianità allo scenario fortemente inglese. Quel quadro, comprato per due soldi, era l’unico sogno che Jennifer si concedeva, come proiezione di un’elegante vita parallela. Così diverse, Jennifer e Grace condividevano la solitudine di moglie al fianco del proprio marito che, seppur così risolutamente umano e vicino, non la toccava mai completamente.
Le due si incontrarono in una serata terribile, in cui bussò alla porta di Grace una Lei rinchiusa in un cappotto marrone che non sapeva bene perché fosse lì, perché avesse ammesso a se stessa la curiosità di conoscere colui che l’aveva resa straordinaria e di cui tanto si parlava sui giornali. Grace si trovò faccia a faccia con quel viso che, la prima volta che lo aveva visto dipinto, le aveva dato un senso di profonda nostalgia, e si rese conto che quella donna di nome Jennifer non era Lei, nessuno poteva esserlo, perché quegli occhi disegnati con la zuppa suggerivano un segreto antico e triste a cui proprio nessuno aveva accesso.
Al numero otto di Belvedere Close c’era un villino, ma poi l’hanno visto galleggiare sul fiume perché Mira, l’infelice ereditiera degli Zoob, lo aveva fatto prelevare per trasferirlo al Tate Modern, cosicché ognuno potesse farci visita e, con un po’ di fortuna, incontrarlo, l’artista smarrito, o il senso ultimo della sua arte; e cosicché ognuno potesse incontrare se stesso, riconoscersi nella forma più luminosa, come fu per Jennifer che a Positano non ci andò mai ma trovò il coraggio di intraprendere il viaggio verso la sua pelle più autentica.
Ognuno dei personaggi è, però, troppo impegnato nella propria ricerca personale da accorgersi di non essere solo, che c’è qualcuno accanto preso in un’affine e timorosa introspezione. Al Tate Modern, distante dagli altri, c’è un senzatetto, un uomo che anni prima è stato colpito nuovamente alla testa durante una serata terribile, un colpo che lo ha fatto scivolare nella dimenticanza. Da allora, ha vissuto vagabondando con l’insinuante consapevolezza che nei suoi confusi ricordi ci fosse qualcuno di profondamente importante che aveva perduto.
È Ray, che si ritrova di fronte alla sua casa al centro della grigia galleria d’arte e tutto ciò che vuole è riposare. La tristezza che la bellezza pura possa appartenere soltanto all’arte sfuma in perdono, accompagnato alla debole speranza che un giorno possa anche lui galleggiare verso casa e affondare la testa nell’incavo di un braccio. È qui che nasce l’ossessione d’amore. Perché quando si è certi di essere guardati così, amati, quando si è sicuri di essere in due su una spiaggia deserta e di essere completamente presenti l’uno verso l’altro, si vola. Ci si avvolge la giacca attorno a sé come un paio d’ali e si ha l’audacia di volare via.
«Vedi quella Pidge? Quella è casa mia. Proprio là […] Se solo potessimo volare. Se solo potessimo volare Pidge, ti ci porterei subito».