Per i nati nell’ultimo ventennio del secolo scorso, Oscar François de Jarjayes è uno di quei nomi che non si dimenticano facilmente. Era il marzo del 1982 quando, per la prima volta, in Italia venne trasmesso dapprima con il titolo originale dell’opera giapponese, poi con Una spada per Lady Oscar, il celebre cartone animato rimasto nei cuori di tutti noi.
Tratto dal manga Le rose di Versailles di Riyoko Ikeda – a suo tempo profondamente colpita dalla biografia della regina Maria Antonietta a cura di Stefan Zweig – l’anime racconta la storia della figlia del generale de Jarjayes cresciuta dal padre come un uomo e che, per volontà ed emulazione di quest’ultimo, diventa presto capitano delle guardie reali. Siamo nella Francia di fine Settecento, prossima al congedo dall’Ancien Régime e allo scoppio della Rivoluzione del 1789 che cambierà per sempre le sorti del Vecchio Continente e del mondo intero.
Nota come madamigella ma, anche come capitano, Oscar è una delle figure protagoniste più sovversive e progressiste dell’intero scenario televisivo – e non solo – che, in tempi nemmeno minimamente sospetti, ha portato al centro dell’attenzione il tema del gender. L’intera narrazione, inoltre, ruota intorno all’ambigua sessualità della giovane che ammalia membri sia dell’uno che dell’altro sesso, di cui subisce a sua volta il fascino. Per tutta la durata del racconto, quindi, si fa quasi fatica a comprendere a pieno l’inclinamento dell’attrazione emozionale, romantica e fisica della ragazza.
Tentata dall’amico fidato André, a lungo segretamente innamorato di lei, e piena d’amore per il conte di Fersen, amante della regina, Lady Oscar è incredibilmente vicina a Maria Antonietta, con la quale intraprende un forte rapporto di amicizia che genera numerose chiacchiere di palazzo, nonché sospetti sulla sua natura anche in chi fa da pubblico dinanzi a uno schermo, senza tuttavia provare alcun tipo di imbarazzo.
La personalità della ragazza, così valida e vigorosa, forte ed emozionante, infatti, dà origine in chi la osserva a un desiderio profondo di affermazione e giustizia. Di Oscar – coraggiosa come una donna, decisa come un uomo – la modernità dei dubbi personali, l’indeterminatezza dell’orientamento sessuale e la labilità dei generi colpiscono ma non sconvolgono chi lo guarda. Difatti, lo spettatore medio, il bambino ancora in fase di scoperta del proprio corpo e delle proprie emozioni, ne è colpito in modo naturale, senza elucubrazioni sciocche e inutili, tipiche degli adulti, paradossalmente soprattutto di quelli odierni. Quel bambino non tende a chiedersi chi o cosa ami Oscar, se si senta più a suo agio con indosso la divisa del comandante o con l’abito da sera che veste – in un’unica occasione – per conquistare il conte di Fersen. Semplicemente, avrà voglia di difendere anche lui la regina, poi di schierarsi con il popolo. Si innamorerà delle attenzioni di André e lo odierà quando quest’ultimo, con ardente ferocia e violenza, in una scena tagliata quasi del tutto nella versione italiana dell’anime, le strapperà la camicia per ricordarle la sua natura femminile (una rosa resterà sempre una rosa e non potrà mai essere un lillà). Soffrirà, poi, quando Oscar capirà di provare un sentimento speciale per l’amante della regina, ce l’avrà con la regnante e sosterrà il terzo stato, pur capendo ancora troppo poco della reale portata della rivolta. Piangerà alla morte di André e, ancor di più, a quella della sua eroina.
Sono trascorsi trentasette anni dalla messa in onda, in Italia, di Lady Oscar. Quel bambino, lo spettatore medio, è ormai un uomo, o una donna, un adulto, insomma. Un adulto che governa – o dovrebbe governare – il Paese delineandone le linee guida per il futuro. Fa fatica, però, a ricordare quei giorni in cui, a Carnevale, desiderava l’alta uniforme francese e la folta chioma bionda, dimenticando quel tempo nel quale le differenze erano, per lui e per i suoi genitori che lo lasciavano dinanzi alla tv, la normalità o, quantomeno, nulla di anomalo. Quel tempo che avrebbe dovuto cogliere per scegliere che tipo di persona diventare poi e cosa pretendere dalla società, fresco dell’insegnamento impartito proprio da quella rivoluzione che seguiva con ansia ogni pomeriggio, dalle quattro, su Italia Uno: liberté, égalité, fraternité. Tre parole memorizzate presto e dimenticate con altrettanta rapidità. Quel bambino, oggi, guarda con sospetto, scetticismo e intolleranza – spesso con violenza – il diverso da sé.
Il gender, infatti, introdotto con naturalezza dalla serie giapponese – almeno nel contesto natio, considerando le numerose limature e storpiature subite nel nostro Paese – è, soprattutto negli ultimi anni, al centro di molteplici polemiche e strumentalizzazioni da parte di chi, bannando i concetti di libera espressione e sentire, ha dato vita ad aberranti teorie fataliste secondo le quali gli studi di genere sono stati progettati con l’intento di distruggere la famiglia e, come conseguenza naturale, il mondo intero. Sostenitori accaniti di tali tesi, ovviamente, gli estremisti cattolici e gli ambienti di destra ai quali risulta notevolmente difficile fare una netta distinzione tra sesso e genere. Il primo biologicamente definito, il secondo più o meno consapevolmente acquisito nella costruzione della propria persona. La differenza non consiste nell’anatomia del soggetto, piuttosto nel modo di percepire e percepirsi. Il punto è che si nasce maschio o femmina per poi diventare uomo o donna affermando la mascolinità o la femminilità personale nel modo che si ritiene più naturale e appropriato. Inoltre, bisogna tenere ben presente che il discorso poco o nulla ha a che vedere con l’orientamento sessuale – in quanto attrazione fisica e sentimentale – dell’individuo che può protendere verso l’uno o l’altro sesso.
Educare al genere, dunque, a differenza di quanto vogliono farci credere i bigotti – e, ci perdonerete, gli ignoranti – è il modo più intelligente ed efficace per stimolare e sostenere la crescita psicologica, fisica, sessuale e relazionale, affinché i bambini e le bambine di oggi possano progettare il proprio futuro al di là delle aspettative sulla mascolinità e la femminilità, superando secoli di arretratezza culturale che nulla hanno fatto se non generare altra grettezza, disagio e infelicità.
Educare al genere significa, anche, interrogarsi sul modo in cui le varie culture hanno costruito il ruolo sociale della donna e dell’uomo a partire dalle caratteristiche biologiche. Contrastare quegli stereotipi e quei luoghi comuni, socialmente condivisi, che finiscono col determinare opportunità e destini diversi a seconda del colore del fiocco (rosa o azzurro) che annuncia al mondo la nostra nascita.
Si fa ardua, quindi, la ricerca del grado di pericolosità di suddetti studi nella costruzione di un mondo al contrario. Inversamente, risulta evidente quanto possano essere utili e formativi per vincere i pregiudizi e accrescere la consapevolezza di ciascuno, al fine di evitarne il costante – talvolta fuorviante – condizionamento esterno.
Se solo i genitori di quel bambino avessero guardato più attentamente la tv e se lui, crescendo, ci avesse riflettuto un po’ su, avrebbero realizzato presto che, in effetti, l’anime – quindi l’esplicita ambiguità del personaggio, i suoi abiti maschili a copertura di un corpo femminile, l’influenza del padre e della società tutta, il predominio del dubbio – non aveva intenzione di preannunciare una fine imminente – che, infatti, non c’è stata né nella finzione né nella realtà – tantomeno la capacità di “deviare” in qualche modo lo spettatore. Avrebbero dovuto cogliere, piuttosto, la grande opportunità che Riyoko Ikeda stava offrendo loro proponendo con largo anticipo argomenti di cui si sarebbe parlato in seguito, anche con profondo e sciocco bigottismo.
In fondo, ma non troppo, tutti hanno e abbiamo sostenuto la causa rivoluzionaria, fino a piangere la morte, di Oscar François de Jarjayes, capitano e madamigella.