La violenza, quella dei femminicidi, è solo una delle tante facce dello stesso dado. La violenza, quella a cui pensiamo quando strade e piazze si tingono di scarpe rosse, non è solo quella dei mariti aggressivi e degli stupratori violenti. Quelli sono solo gli episodi i cui numeri dovrebbero ricordarci di aprire gli occhi per tutto l’anno, non soltanto il 25 novembre. Ma la verità è che dietro quei numeri eloquenti, che non dovrebbero lasciare spazio ad alcun dubbio, non si guarda mai. Perché alle loro spalle c’è una cultura radicata che non basterebbero cento anni per debellarla, figuriamoci una sola giornata.
Solo quest’anno – e non è ancora concluso – sono state più di cento le donne uccise dagli uomini che avevano giurato di amarle. Donne rinchiuse, donne maltrattate, donne violate, solo perché volevano allontanarsi dai compagni sbagliati, solo perché volevano affermare la propria individualità al di fuori di un rapporto malsano. Ma nessuna di quelle 103 donne di cui abbiamo già dimenticato i nomi ne ha avuto la possibilità. Eppure, nonostante i numeri siano spaventosi, c’è ancora chi si chiede perché parliamo di femminicidio, perché l’assassinio di una donna debba avere un nome diverso. Ma anche l’annientamento di genere perpetrato attraverso i femminicidi è solo un’altra delle sembianze dello stesso problema.
In Italia, il 21% delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subito qualche forma di violenza sessuale (dati ISTAT). Il 3% – e, su una popolazione di quasi 60 milioni di persone, il 3% non è un numero piccolo – ha subito uno stupro e un altro 3.5% ha subito un tentato stupro. Ebbene, il problema di questi numeri, di quelli sui femminicidi e di quelli sulle violenze sessuali, sta nel fatto che, sebbene siano terribilmente eloquenti, non riusciamo a capire che cosa significano davvero. Dietro questi dati non c’è solo la sofferenza di centinaia di migliaia di donne, ma si nasconde la malattia di un sistema che incolpa le mele marce per non incolpare se stesso.
Avete mai pensato a quale sia il motivo che spinge una persona a commettere una violenza sessuale? E, se ci avete pensato, la conclusione che avete tratto ha a che fare con il piacere sessuale, magari unito a una buona dose di infermità mentale? Ebbene, nonostante si tratti della conclusione a cui tutti i media arrivano quando affrontano una notizia del genere, non c’è nulla di più sbagliato, per due ordini di ragioni. Prima di tutto, un uomo che tenta di sopraffare una donna, di possederne il corpo contro la sua volontà, compie un esercizio di potere. Sin dall’alba dei tempi, sin da quando Sparta e Atene battibeccavano per chi fosse la città migliore, agli uomini è stato insegnato che il potere è tutta una questione di violenza. Che solo la forza bruta e annientante garantisce il successo. Perché il potere è dimostrare di saper fare male a qualcun altro. E, dunque, dietro le violenze sessuali c’è la stessa convinzione: non solo l’idea che il corpo femminile sia un oggetto da possedere privo di arbitrio o volontà, ma il bisogno di dimostrarlo. Soprattutto, il bisogno di dimostrarlo quando, ora che i diritti si riaffermano, il potere inizia a sfuggire.
Il secondo errore risiede nella convinzione che la violenza sulle donne sia prerogativa di qualche mente malata, di qualche essere mezzo umano e mezzo bestia che agisce nella vita con fare animalesco. Questa è in realtà una comoda attenuante, quella che la colpa sia di pochi uomini con difetti genetici, di qualche errore di madre natura. È la stessa giustificazione che alimenta i movimenti not all men, quelli degli uomini che tengono a precisare che non sono tutti stupratori e che si sentono chiamati in causa nelle battaglie contro la violenza sulle donne. È ovvio che non tutti gli uomini siano stupratori, assassini e violenti, ma è forse meno ovvio che tutti, tutte le persone, uomini e donne, vivano immersi nella cultura dello stupro, che giustifica le violenze e di cui tutti sono colpevoli.
Ed è proprio questo il punto: è una questione di cultura. Di convinzione radicata che riguarda tutti. La violenza di genere non è una questione femminile, non riguarda solo le donne, riguarda ognuno di noi. La cultura dello stupro ha tanti modi per insinuarsi nelle nostre vite, non solo attraverso le violenze sessuali e i femminicidi. Pervade ogni aspetto della vita sociale ed è inevitabilmente appiccicata a ciascun essere umano. È sempre una questione di potere quando un corpo femminile è sfruttato in modo non consensuale. Che si tratti di una violenza, di revenge porn, di catcalling o anche solo della violazione dell’intimità. Il punto non è mai il piacere, ma solo l’affermazione del potere. E una vicenda venuta fuori nelle ultime settimane ne è la prova.
In seguito alla denuncia di una giovane studentessa, Noemi de Vitis, che aveva ricevuto una chiamata molto sospetta, si è scoperta la violazione della privacy di oltre 400 donne in tutta Italia. Una voce maschile che si è presentata come medico ha contattato telefonicamente centinaia di donne, ha dimostrato di avere accesso a dati ed esami ginecologici e ha richiesto informazioni private e, in alcuni casi, visite fatte in videochiamate, durante le quali sono state poste domande inconcepibili sulla sfera privata e sulla vita sessuale delle vittime, domande che un medico non avrebbe mai fatto. Che senso ha, che gusto c’è, quale strano piacere perverso deve provare una persona a possedere dei dati privati di alcune donne e dimostrare loro di averli, spaventandole? Nessuno, nessun piacere, solo la sensazione di potere. Dimostrare di poter violare l’intimità, i corpi delle donne, di tante donne, visto che le testimonianze sono arrivate a 445, perché più nei hai, più ne collezioni, più sei potente.
Quello appena riportato è solo un esempio dei tanti modi in cui si riesce a compiere violenza sulle donne. E come quest’uomo, il cui operato è venuto allo scoperto solo grazie alla visibilità che i social hanno dato alla vicenda dopo chissà quanti anni di attività e di denunce finite nel dimenticatoio, chissà quanti altri fanno lo stesso, si inventano nuovi modi per violare e violentare le donne nei più infimi modi. È questo ciò che si intende dicendo che dietro i numeri delle violenze, per quanto spaventosi possano essere, c’è di più e c’è di peggio. Ci sono aspetti che neanche si immaginano, violenze che non si riescono neanche a denunciare. Ed è questo che si intende quando si afferma che non basta una giornata di sensibilizzazione ogni anno, perché la cultura dello stupro rema nella direzione opposta tutti gli altri 364 giorni.